Giuseppe Feola
(Scuola Normale Superiore, Pisa)
umanesimo, rinascita dell’antico e rivoluzione scientifica
alcune idee sulla loro relazione storica
In questo breve contributo cercherò di illustrare come e perché il sapere dell’umanesimo, del rinascimento e della prima età moderna riuscì non solo a far risorgere la scienza antica, ma anche a superare i blocchi ideologici che della scienza antica avevano soffocato lo sviluppo, impedendo nell’età antica l’insorgere di una vera e propria rivoluzione scientifica.
Suggerirò che causa di questa differenza sia stata la sfasatura tra i momenti storici in cui nell’Antichità fiorirono arti, filosofia e scienze. A differenza che nell’Antichità, nella Modernità l’esplosione di queste attività creative ed intellettuali si svolse in contemporanea, dando luogo a un processo di alimentazione reciproca.
- Proposito
Di cosa parleremo? Dell’emergere (o del distacco) della mentalità umanistica e rinascimentale da quella medioevale; e della (ri)nascita della scienza che fece seguito a Umanesimo e Rinascimento.
Proporrò alla vostra attenzione alcuni fatti storici e fenomeni culturali che furono tipici di quel periodo, in modo tale da poterne discutere insieme.
A margine, proverò anche a suggerire alcune mie proposte. Due in particolare.
La prima è che nel mondo antico lo spirito della storiografia (e delle discipline umanistiche in genere), quello della filosofia e quello delle scienze esatte fiorirono in epoche e ambienti tra loro distinti. Invece in età moderna lo sviluppo di questi tre ambiti del sapere è andato più o meno di pari passo, a partire dall’Umanesimo fino alla metà del XX secolo. L’unica fase storica, nell’antichità, in cui riscontriamo un forte sviluppo di tutti e tre questi campi in contemporanea, è la Ionia del VI sec. a.C.1; in quella fase della storia della scienza, però, le capacità tecniche necessarie a tradurre le scoperte scientifiche in realizzazioni pratiche, nonché a costruire adeguati strumenti di misurazione, erano ancora troppo rozze per sostenere lo sviluppo delle scienze, e anche per offrire applicazioni pratiche che giustificassero la ricerca sulla natura agli occhi della società2.
La seconda, è che nella nascita dello spirito scientifico, un peso molto grande fu giocato dalla diffusione di uno stile pittorico incentrato su una prospettiva geometricamente architettata, la cui funzione è, per l’appunto, quella di inscrivere i vari elementi del mondo sensibile in un ordine matematico3
- L’Umanesimo
L’Umanesimo è un fenomeno culturale che coinvolse tutta l’Europa Occidentale, con epicentro in Italia (in particolare a Firenze, Roma, Napoli, Milano e Venezia), caratterizzato dalla riscoperta della dignità degli studi mondani (“umani”, cioè “non divini”), e in particolare di letteratura, arte e filosofia morale, al di fuori di finalità religiose. Probabilmente a causa del formarsi, in Italia centro-settentrionale, in Germania e nei Paesi Bassi, di un ceto borghese molto ricco, specializzato in commerci e transazioni bancarie, a partire dal XIII secolo venne meno la divisione tripartita della cittadinanza in clero, nobili (militari) e popolo, proprio per l’avvento di questa quarta classe: trattandosi di un ceto nuovo, esso aveva bisogno di nuovi strumenti di educazione; la teologia, necessaria alla formazione del clero, ai borghesi non serviva. Servivano, invece, le capacità retoriche necessarie a farsi valere nei parlamenti delle piccole città-repubbliche dell’Italia, della Germania e delle Fiandre; servivano, inoltre, le competenze tecniche necessarie alla buona amministrazione della vita cittadina (p.es. la geometria applicata all’urbanistica e all’architettura, o l’aritmetica applicata ai rendiconti delle casse dello stato o dei privati); servivano, poi, le abilità artistiche necessarie a costruire e adornare con pitture e statue le città che man mano venivano rinnovandosi; serviva, infine, una nuova filosofia morale che proponesse, a questa classe sociale nuova, nuovi valori adeguati al suo stile di vita, necessariamente diversi dai valori della società feudale.
Questo fenomeno dell’ascesa della borghesia si verificò nelle Fiandre e in Germania non meno che in Italia. Come mai, allora, Germania e Fiandre hanno avuto un umanesimo solo nel senso di ‘avere un movimento culturale umanistico’, e solo in Italia questo movimento è stato così pervasivo, rispetto alla società, da dare il nome a un’intera epoca storica? L’Italia è infatti l’unico paese per il quale si chiama in causa un periodo storico a sé chiamato “Umanesimo e Rinascimento”, che si interpone tra Medioevo ed Età Moderna, separandoli.
Fu in Italia, e proprio nelle città (Firenze, Roma, Milano, Napoli, Venezia) che poi saranno epicentri dell’Umanesimo, che fuggirono, per tutto l’arco del XIV secolo, dalla Grecia bizantina ormai in procinto di cadere in mano ai Turchi Ottomani, i dotti greci che cercavano lidi sicuri in cui continuare i loro studi. Essi portavano con sé i testi greci di scienziati, poeti, filosofi, oratori, moralisti, architetti e storici e teorici dell’arte, che fino a quel momento in Occidente venivano letti solo in traduzioni latine molto approssimative, quando non in riduzioni e riassunti, o addirittura erano del tutto sconosciuti. Molti di questi testi greci, invero, c’erano anche in Occidente; ma giacevano custoditi nei monasteri, senza circolare.
Ciò vuol dire che un dotto italiano nato durante la vita di Dante (1265-1321), diciamo nel 1300, se fosse vissuto per 70 anni, cioè fino al 1370 circa, si sarebbe dovuto confrontare con lo shock di toccare con mano quanto più avanzato (molto più di quanto si fosse immaginato) fosse il sapere, e quanto più raffinata l’arte, di 1200 anni prima rispetto a quelli della sua epoca.
Fu proprio questo shock a dar luogo a un nuovo senso storico. Il senso della storia che era stato proprio dell’Antichità era quello di una ciclicità che si ripete, pur con infinite variazioni, più o meno sempre identico secondo la successione nascita – ascesa – culmine – decadenza – crollo di società, culture, stati, imperi, analogo a quello nascita – crescita – maturità – vecchiaia – morte dei singoli organismi viventi. Il senso della storia proprio del Medioevo è inscritto nel paradigma paradiso terrestre – caduta – riscatto – paradiso celeste: c’è stato un Errore primordiale, a seguito del quale vaghiamo nella povertà e nell’ignoranza, ma a tempo debito sarà ristabilito un Ordine più alto di quello che abbiamo perso. In epoca umanistica si inizia a dubitare che l’intera vita mondana dell’uomo possa e debba esaurirsi nell’attesa di questo Ordine finale: intanto siamo qui, sulla Terra, e dobbiamo adoperarci per far sì che questa vita mondana migliori rispetto alle pessime condizioni in cui l’ha lasciata la quasi esclusiva concentrazione dei nostri immediati predecessori sulla vita spirituale; e possiamo farlo, riutilizzando le scoperte, creazioni e invenzioni degli Antichi, alle quali poi aggiungere le nostre. Il giorno del Giudizio non è dimenticato, quanto piuttosto messo tra parentesi, per concentrarsi sulle esigenze politiche, conoscitive, estetiche, morali, dell’uomo qui sulla Terra; e, finché siamo sulla Terra, – ecco il concetto fondamentale del senso della storia dell’Umanesimo – dobbiamo ricordare che noi, ora, siamo qualcosa di diverso sia da chi ci ha immediatamente preceduto, che aveva perso le competenze degli Antichi, sia dagli Antichi stessi, che non avevano conosciuto il Cristianesimo e che vivevano in un orizzonte spirituale completamente diverso dal nostro. La vita dell’uomo cambia di epoca in epoca: questo è il senso storico dell’Umanesimo, che è tutt’ora il nostro, e che è invenzione specifica di quel periodo.
- Il debito della scienza moderna con quella antica4
Copernico, Galilei, Keplero non hanno ricominciato da zero, semplicemente rifiutando i modelli medioevali e inventando dal nulla un nuovo metodo. Un nuovo metodo fu in effetti inventato, ma non dal nulla: i padri della moderna rivoluzione scientifica sapevano di molti dei risultati raggiunti da matematici e cosmologi antichi, e si chiesero come quegli antichi scienziati potessero averli raggiunti; fu in tal modo che si elaborò il nuovo metodo scientifico.
Il debito della scienza moderna con quella antica può venire classificato in tre grandi rubriche: (I) dati scientifici che i moderni trovarono presso i testi antichi, o compiutamente dimostrati (è il caso di molti risultati geometrici), o anche solo enunciati, il che spinse i moderni a chiedersi come potessero venire dimostrati (ed è il caso dell’eliocentrismo); (II) concezioni generali che il medioevo aveva perso5 o accantonato (visto che ogni epoca valorizza, del patrimonio lasciatole da quelle precedente, singole cose piuttosto che altre6), e che ora improvvisamente trovano terreno fertile per riemergere. Infine, vi è (III) tutta un’eredità di concezioni che non erano state né perse né accantonate, ma che nel Medioevo erano rimaste appannaggio di poche menti, le quali per giunta spesso si autocensuravano, mentre ora, con l’Umanesimo, accedono allo spazio del discorso esplicito, e, in taluni casi, persino pubblico.
Di particolare importanza fu la tradizione pitagorica: la realtà concreta e quella matematica non sono separate l’una dall’altra, e il mondo naturale è descrivibile in termini matematici. Questa concezione rimase latente nel medioevo, condensata in un trattato del neoplatonico Proclo7, il Commentario al I libro di Euclide, finché il Rinascimento non se ne riappropriò8. E fu essa che diede l’impulso alla nuova astronomia9.
Sempre i Pitagorici avevano inventato una nuovo tipo di mentalità: una religione priva di dogmi, la cui pratica – equivalente a ciò che nelle religioni a noi più familiari è la preghiera – è la ricerca scientifica volta alla scoperta della natura del cosmo. Bene o male, si tratta dei principii comportamentali cui si attiene tuttora, nell’esercizio della sua ricerca (a prescindere da una eventuale religiosità o ateismo pertinente alla sfera del privato), lo scienziato moderno.
Infine possiamo menzionare le ipotesi formulate da Anassimandro, Empedocle, Anassagora, Democrito, Epicuro, circa il fatto che la natura dei viventi non sia stata sempre quale oggi la osserviamo, ma che debba esserci stato un mutamento nelle specie viventi, mutamento del quale le specie viventi oggi osservabili sono il risultato, in accordo con una cernita compiuta dalla Natura, in base alla maggiore o minore valenza adattativa delle peculiarità fisiche di questo o quell’organismo10 (a seconda del filosofo, la causa invocata per spiegare questa cernita è una necessità meccanica o il mero caso). Anassimandro giunse persino a indovinare che i vertebrati terrestri derivano dai pesci11.
Per quanto riguarda il gruppo I, basta ricordare – oltre a tutto il patrimonio di geometria e logica, botanica e anatomia umana e animale, etica, poetica e dottrine politiche – l’eliocentrismo di Aristarco12, o l’idea, sempre pitagorica, che l’universo potrebbe essere uno spazio infinito piuttosto che un cosmo finito. Il brano di Plutarco, nel dialogo Sul volto nel cerchio della Luna, in cui si argomenta in favore dell’infinità dell’Universo, e che propone l’idea che non esista un centro assoluto, ma solo dei centri, ciascuno relativo al sistema considerato13, pur scritto da una persona che non era uno scienziato, ma un poligrafo e divulgatore, ispirò direttamente Copernico e Newton14.
Ciò che rende i testi scientifici antichi così diversi da quelli del XVII secolo, e ce li fa apparire tanto più lontani, non è una maggiore primitività delle concezioni o delle tecniche usate. È, bensì (e questa è una mia ipotesi), una differenza nel modo in cui la scienza è vissuta. Non si tratta, presso gli antichi, di separare l’ambito della realtà fisica e/o biologica da quello della realtà divina e morale (preoccupazione che, per rassicurare Chiesa e regnanti sul fatto che le loro ricerche non invadevano altri campi di autorità, fu imperante per gli scienziati del XVII secolo); si tratta, invece, di comprendere in base a quali ragioni l’intero ambito di ciò che esiste si trova a essere costituito in un modo piuttosto che in un altro, e di ricostruire l’ordine razionale di cui anche noi, con tutto il nostro essere (non ‘solo col nostro corpo’, come un cristiano come Galilei avrebbe puntualizzato) siamo parte.
- Il Rinascimento
Ho già illustrato due dei caratteri fondamentali della prima età moderna (Umanesimo e Rinascimento), che la distinsero dal Medioevo: il recupero dei metodi e problemi (e di parte delle soluzioni) della scienza antica, da un lato; e, dall’altro, la consapevolezza di vivere un tempo storico diverso sia dal Medioevo sia dall’Antichità stessa, visto che la vita dell’uomo cambia di epoca in epoca. Ne abbiamo poi aggiunto un altro, che accomuna, invece, la prima età moderna al Medioevo, distinguendola dall’Antichità: l’idea che la scienza, e in generale la razionalità umana, possa e debba (almeno pubblicamente, almeno per ragioni di prudenza) occuparsi solo della realtà mondana, tralasciando questioni che potrebbero scuotere il predominio della parola biblica (cattolica o protestante che sia15) sulle questioni relative all’anima dell’uomo. Un simile agnosticismo, da parte delle scienze positive, si era riscontrato anche nella tarda antichità, dove al filosofo morale (stoico, platonico o epicureo che fosse) veniva lasciata la cura dell’anima e la formulazione di rassicuranti Weltanschauungen sul raggiungimento della felicità, e lo scienziato si limitava di buon grado ad accumulare dati ed elaborare modelli esplicativi, senza curarsi di valutarne egli stesso l’impatto sulla concezione generale del mondo. Secondo molti, tale agnosticismo fu una delle cause del blocco della scienza antica. Come mai invece nel Rinascimento esso fu un fattore produttivo, e non di blocco? La mia idea è che l’agnosticismo metafisico dello scienziato rinascimentale sia stato un agnosticismo solo di facciata, un agnosticismo dettato da prudenza. La realtà è tutt’altra: gente come Copernico, Keplero, Galilei, non era affatto agnostica nell’esercizio delle loro ricerche; si trattava bensì di persone che credevano di poter leggere direttamente nel libro della Natura, scritto da Dio in caratteri matematici. Di qui tutto il fiorire di nuovi sistemi del Mondo, da cui emerse infine l’eliocentrismo copernicano coi suoi successivi aggiustamenti, tutti volti a ipotizzare le leggi immutabili che il Creatore avrebbe assegnato al Cosmo. In pratica, la scienza rinascimentale si dimostrò più incisiva di quella della tarda antichità, nel sovvertire le concezioni tramandate dall’ambiente sociale, proprio perché lo scienziato rinascimentale, a differenza di quello della tarda antichità, riuniva in sé le ambizioni dello scienziato, del filosofo, dell’umanista16: da questo punto di vista, si può parlare di una rinascita dello spirito della filosofia presocratica, ma ovviamente in una situazione in cui, si erano accumulati molti più dati sui quali lavorare.
Riassumendo: rispetto allo scienziato della tarda antichità, lo scienziato della prima età moderna ha il vantaggio di essersi emancipato dalla patria potestà del teologo (che, per forza di cose, non ama le novità potenzialmente sovversive), laddove lo scienziato di età tardo-antica si sottometteva invece di buon grado a quella del filosofo morale; da questo punto di vista, lo scienziato rinascimentale assomiglia piuttosto al filosofo-scienziato della Grecia arcaica e classica, che non risponde a nessuno perché assomma in sé ambedue le competenze; ma, rispetto a quest’ultimo, ha il vantaggio di aver a disposizione strumenti razionali più sofisticati e dati osservativi assai più completi: sia quelli elaborati e ritrovati nella tarda antichità e rivenuti alla luce grazie alle ricerche storiche degli umanisti, sia strumenti e dati del tutto nuovi, elaborati progredendo sulla stessa via di ricerca razionale su cui si erano avviati gli antichi. Inoltre, non sarebbe stato possibile falsificare i dati tramandati dai testi antichi sulla base di nuovi dati, scoperti progredendo su quella stessa via, se non ci fosse stato quel senso storico di cui prima parlavo: ossia la consapevolezza che l’età presente, in quanto diversa sia dal Medioevo sia dall’Antichità, può riservare scoperte diverse da quelle alle quali ebbero accesso i nostri antenati.
Ma forse (e questa è una mia ipotesi) tutto ciò sarebbe stato inane alla nascita della scienza sperimentale, se gli scienziati dell’Umanesimo e del Rinascimento non fossero vissuti in un ambiente al quale la diffusione della prospettiva pittorica aveva insegnato l’arte di inscrivere le apparenze particolari del mondo in un ordine geometrico generale17.
- Teoria e osservazione nella scienza antica e in quella moderna
Casi in cui la teoria distorse l’osservazione si riscontrano nell’antichità come nell’età moderna; d’altra parte, il caso di Ipparco, che si cura in prima persona di verificare se le osservazioni tramandate sono corrette18, e proprio osservando l’incongruenza della realtà osservata rispetto al modello prefissato scopre la precessione degli Equinozi19, mostra che nell’antichità scienziati disposti ad accettare che l’osservazione potesse falsificare la teoria non mancavano.
Io credo che un diverso atteggiamento circa il rapporto tra osservazione e teoria possa essere stato causa del maggior successo della scienza moderna rispetto a quella antica; ma non nel senso che quest’ultima trascurasse l’osservazione o la censurasse più di quanto abbiano fatto i moderni.
- In cosa la scienza rinascimentale è davvero ‘nuova’ rispetto a quella antica?
Nonostante l’importantissimo debito della scienza del XVI/XVII nei confronti di quella antica, emerge una differenza netta tra la scienza moderna e quella della tarda grecità (tolto Archimede).
L’apertura ai saperi tecnici (che constatiamo p.es. nell’invenzione del cannocchiale da parte di Galilei20), saperi che nell’antichità restano distinti dalla scienza da un iato incolmabile, rende la scienza rinascimentale immediatamente votata alla applicazione della matematica alla realtà fisica.
Non che gli scienziati antichi non costruissero marchingegni; ma pare di capire che, tra tutti, solo Archimede si sia servito di ritrovati tecnici di sua propria invenzione come di strumenti per avanzare nelle sue scoperte; per tutti gli altri, l’invenzione di congegni era solo un’applicazione collaterale della ricerca scientifica.
Mi chiedo, a questo punto, se questa differenza della scienza moderna rispetto a quella antica, la maggiore apertura ai saperi tecnici, non sia stata dovuta a una disponibilità, da parte di scienziati e artisti (mi riferisco in particolare ai pittori), a influenzarsi a vicenda: inizialmente i pittori si servono della matematica per costruire le loro trame prospettiche21; a sua volta, l’enorme impatto della pittura italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento sulla cultura europea del XVI sec., in termini – direi – di atteggiamento visivo, dunque intellettuale, produce una mentalità totalmente informata dall’abitudine alla prospettiva geometrica, dunque ad inscrivere i dati del mondo fenomenico in una struttura matematica.
Ciò impedisce, nello scienziato rinascimentale, l’insorgere di tentazioni a concentrarsi sul modello astratto (come accadeva all’astronomo d’ispirazione platonica dell’antichità), senza tener presente l’applicabilità concreta della teoria alla spiegazione del mondo materiale22.
Se dalla struttura concettuale generale passiamo ai contenuti del sapere, notiamo, questa volta in Germania e nei Paesi Bassi piuttosto che in Italia, un crescente interesse, a partire dal XV sec., per l’osservazione minuta della realtà concreta. Possiamo fare un ulteriore passo, e notare che chiunque abbia presenti le opere di Brueghel e Dürer, piene di dettagli minutissimi, spesso tratti dalle regioni più umili della realtà, può notare il parallelismo tra questa evoluzione del sapere e il gusto artistico di quei paesi nella stessa epoca.
Questa attenzione per il particolare la troviamo, ancora una volta, nella scienza ellenistica; ma – senza quello spirito di cooperazione tra scienza del mondo fisico, matematica e filosofia che era distintivo della scuola pitagorica e che si era estinto dopo la fine dei Presocratici – essa aveva portato solo a conquiste particolari (p.es. la scoperta del sistema nervoso e della funzione del cervello). Solo tra il XV e il XVII secolo tale spirito di osservazione si trova coniugato a quella tendenza a creare modelli astratti, di cui verificare la plausibilità concreta, che trovavamo tra i presocratici e in età ellenistica non troviamo più.
Infine, nell’esplosione della rivoluzione scientifica, può aver contato anche una particolare audacia concettuale che è tipica dei periodi di grande cambiamento, e che perciò partoriscono uomini amanti dell’azzardo e che si fidano solo delle loro proprie idee23; consideriamo p.es. il problema tecnico ed epistemologico del cannocchiale: fidarsi o non fidarsi di uno strumento così rudimentale?24 Da parte di Galilei, che l’aveva costruito, confidare che quel prodotto del proprio genio potesse migliorare le prestazioni dell’occhio nudo, piuttosto che distorcerle, fu un azzardo ispirato dal genio. Ancora: dal punto di vista predittivo, l’ipotesi migliore non era quella di Tolomeo né quella di Copernico, ma quella di Brahe25, studiata dall’astronomo danese apposta come compromesso tra le due. La scelta eliocentrica, da parte di Galilei e Keplero, fu dunque non una scelta per la fedeltà al dato piuttosto che per l’autorità, bensì una scelta per la soluzione più semplice rispetto a quella più accurata.
Una scelta per il cambiamento radicale: niente mezze misure.
- Il metodo: ragione e osservazione nella scienza moderna
Lo scienziato del ‘600 non è un empirista, come invece amerà presentarsi lo scienziato di età illuministica o positivistica.
Ecco alcuni esempi particolarmente importanti.
La superiorità dell’eliocentrismo sul geocentrismo non sta (come abbiano visto) in un maggior potere descrittivo; oltre al grande acquisto di semplificazione, c’è il fatto che, mentre l’astronomia geocentrica, nel suo cammino storico, ha dovuto complicare sempre di più le proprie ipotesi per adeguarle a posteriori alle nuove osservazioni26, l’eliocentrismo si presenta fin da subito come un sistema unitario e razionalmente ordinato, dipendente da pochi princìpi27. La preoccupazione degli astronomi del ‘600, il loro chiodo fisso, è trovare in base a quali costanti (che siano di numero minore possibile) si possano descrivere i moti celesti28.
Huygens (1620-1695), nel suo Trattato sulla luce (1690), pone a criterio della verosimiglianza dell’ipotesi scientifica il fatto che le conseguenze fisiche logicamente e matematicamente conseguenti all’ipotesi stessa, posta tramite congettura escogitata a priori, siano confermate a posteriori dall’osservazione29. Lo stesso si può dire di Galilei, che inventa la procedura dell’esperimento appunto per confermare o falsificare ipotesi razionali previamente escogitate. Chi ha familiarità col razionalismo antico, i cui principali esempi sono Platone e Aristotele, vede qui all’opera la stessa forma mentis30; la differenza (grande) sta nell’invenzione dell’esperimento (che sostituisce la mera osservazione) e nello strumento razionale utilizzato: non più la logica o (in certi campi) la geometria, ma una matematica che si avvia sempre più in direzione dell’analisi.
E quel che è vero di ‘moderati’ come Galilei e Huyghens, con quanto maggior diritto si potrà dire di Cartesio, famoso per essere il fondatore del razionalismo moderno, e che nel 1644, nei Principia philosophiæ, inventa, appunto, la geometria analitica? Per non parlare di Keplero, che nelle sue ricerche seguiva procedure in cui è spesso difficile distinguere, per noi, l’osservazione e la misurazione dall’ipotesi astronomica, l’ipotesi astronomica dalla teoria filosofica, questa dalla misteriosofia e la misteriosofia dalla magia31.
Riassumendo. Copernico usava osservazioni, strumenti matematici e concetti fisici vecchissimi: sembra dunque illecito dire che la rivoluzione copernicana (che fu il primo grande fuoco da cui nacque l’incendio della rivoluzione scientifica) sia stata dovuta a progressi in uno di questi tre campi. La rivoluzione copernicana nacque dalla creazione, a opera di un genio individuale (Copernico) di un modello nuovo32. E Copernico creò un modello nuovo perché l’ambiente in cui viveva apprezzava la creatività intellettuale; esso attecchì nel terreno della scienza, e fece scandalo, invece di restare una mera ipotesi, perché la cultura di quel tempo era (come la cultura ellenistica) abituata a osservare la realtà, e (come la cultura presocratica) portata ad applicare la matematica alla spiegazione dei fenomeni, grazie all’impatto esercitato sulla cultura del Rinascimento dal prestigio della pittura, e a portare alle debite conseguenze, tutte le implicazioni filosofiche delle teorie scientifiche.
La scienza ellenistica decadde perché filosofia naturale e scienza nella tarda antichità si erano separate; invece, molti dei padri della scienza moderna erano animati da impegnativi programmi filosofici.
- Il blocco della scienza nella tarda Antichità e i suoi perché
Abbiamo già visto che è difficile sostenere che il blocco della scienza nella tarda Antichità sia stato dovuto a una propensione ad anteporre la teoria all’osservazione: tale propensione si presenta, in età antica, non più che in età moderna.
Io credo che il blocco della scienza antica fu dovuto a un eccesso di partizione dei compiti tra artisti, filosofi, scienziati, e anche tra gli scienziati delle varie branche: alla propensione a porre confini rigidi tra le competenze (anche all’interno dell’edificio stesso della scienza), fino a creare renitenze nell’uso di scoperte fatte in un dato campo come di eventuali semi di ulteriori scoperte in un altro campo (persino da parte di chi si trovava a padroneggiare ambedue i campi)33.
Ma più di tutto contò il totale scollamento tra la cultura filosofica, in età tardo-antica interessata quasi esclusivamente alla morale34, che pretendeva di costruirsi le proprie “fisiche” in funzione delle proprie dottrine etiche, ormai irreggimentata in ‘scuole’ finanziate dallo Stato (dunque poco propense a mettere in discussione i princìpi ideologici su cui si fonda il sistema sociale consolidato)35, e tutta assorbita in una continua, secolare, guerra di posizione tra singole scuole (da un lato), e (dall’altro) una scienza che non esce mai dai propri laboratori, nei quali si dissezionano cadaveri, si scopre magari la funzione del cervello, e non ci si pone mai la domanda sul perché il corpo animale e umano è conformato quale lo osserviamo, o nei quali si elaborano modelli geometrici sempre più raffinati dei moti planetari senza che mai alcuno di questi scienziati, dopo la morte di Aristarco, si ponga la questione epistemologica (dunque filosofica) se i motivi che rendono il geocentrismo così intuitivo siano razionalmente validi36.
- Una scienza troppo empirica?
Aristotele per primo ha definito l’essere vivente come entità dotata di parti che cooperano alla conservazione e alle operazioni dell’intero37.
La posizione di Aristotele nella storia della biologia è ambigua, perché, mentre da un lato ha dato l’avvio alla pratica della dissezione anatomica (ma non in vivo), ha fondato l’anatomia (anche comparata), la tassonomia (in base a criteri anatomici), l’embriologia38, e soprattutto ha definito i concetti di organismo vivente e di organo, proprio questa sua attenzione per l’unità del vivente e per il suo sviluppo coordinato lo ha portato a rifiutare le rudimentali versioni dell’evoluzionismo proposte da alcuni predecessori, in primo luogo da Empedocle39. Empedocle credeva che, in particolari situazioni, possono formarsi meccanicamente pezzi di materia atti ad assemblarsi tra loro in modo tale da dar luogo a organismi viventi; ma aveva identificato tali componenti con le parti anatomiche (gambe, braccia, zampe, ecc.)40: al che Aristotele ha buon gioco nell’obiettare che è un po’ bizzarro chiamare in causa braccia e zampe che spuntino dalla Terra per poi formare un animale intero, quando invece nell’embrione osserviamo prima formarsi un inizio di vivente intero, e poi lo vediamo articolarsi in parti.
Il rifiuto dell’ipotesi di un mutamento delle specie viventi da parte di Aristotele è tanto più rilevante, in quanto (a) esso non è mai esplicito: non vi è alcuna dichiarazione, da parte di Aristotele, che i suoi concetti biologici sarebbero incompatibili con una teoria del mutamento delle specie; (b) Aristotele ritenne possibile che esseri viventi semplici nascano dalla materia inorganica41; (c) è possibile, dal punto di vista logico, costruire una versione dell’ontologia dell’èidos aristotelico che sia compatibile con una teoria non fissista della specie42. Ciò nonostante, è palese che Aristotele non prende minimamente sul serio l’ipotesi di un mutamento delle specie: se pure potrebbe averlo ammesso in singoli casi circoscritti, deve averlo del tutto escluso dai fattori di grande rilevanza per la spiegazione della varietà delle forme viventi.
Un fattore che forse non è stato ben ponderato, nel rifiuto delle ipotesi evolutive da parte delle principali correnti della biologia antica, è l’impronta empirica di quella biologia: in Aristotele troviamo lunghissime descrizioni di ossa, muscoli, organi interni43, al punto che il lettore è spinto a chiedersi quanti collaboratori Aristotele possa aver messo a dissezionare cadaveri di animali. Nutro il sospetto che sia stato proprio questo interesse, in biologia, per ciò che è direttamente osservabile, a spingere i biologi antichi, e in particolare Aristotele, a rifiutare illazioni sull’(inosservabile) origine delle specie viventi. Aggiungiamo il suo scarso interesse per la geologia e la mineralogia, che lo tenne lontano da oggetti che avrebbe potuto interpretare come residui di esseri viventi. Aggiungiamo, ancora, la sua focalizzazione sull’unità organica dell’individuo vivente piuttosto che sulle popolazioni. Ed ecco che forse abbiamo raggiunto una spiegazione plausibile di questo ‘gran rifiuto’.
Questo “eccesso di empirismo” era destinato ad aggravarsi dopo la morte di Aristotele. Esso è un limite non solo di tutta la scienza antica posteriore alla morte di Alessandro Magno (con l’esclusione della matematica e della logica), ma anche della cultura materiale dell’ellenismo44, e soprattutto dell’economia. La situazione peggiora, da questo punto di vista, durante l’impero romano: l’economia stagna, la scienza si fa manualistica, si nota dappertutto una mancanza d’immaginazione45. Lo scienziato mosso da pura curiosità cede il passo all’ingegnere che deve costruire macchine belliche o agricole46.
- Conclusioni
Nell’Antichità lo spirito della storiografia (e delle discipline umanistiche in genere), quello della filosofia e quello delle scienze naturali si sono sviluppati in epoche e ambienti tra loro distinti. Nella Modernità, invece, lo sviluppo del sapere in questi tre ambiti è andato più o meno di pari passo, a partire dall’Umanesimo fino alla metà del XX secolo. L’unica situazione storica, nell’Antichità, in cui riscontriamo un forte sviluppo di tutti e tre questi campi del sapere umano, è la Ionia del VI sec. a.C.; in quella fase della storia della scienza, però, la tecnica (necessaria ad esempio a costruire strumenti di misurazione), era ancora troppo rozza per sostenere lo sviluppo delle scienze.
Il motivo per cui nell’Antichità non c’è stata una rivoluzione scientifica è lo stesso per il quale (a mio avviso) non c’è stata la scoperta delle Americhe: all’epoca in cui gli antichi avevano i mezzi tecnici per farcela (tarda età ellenistica ed età romana), avevano perso la capacità visionaria di immaginare orizzonti nuovi; quando invece avevano audacia e capacità immaginativa (età arcaica e classica), ancora non avevano i mezzi tecnici e le competenze necessarie.
- Bibliografia
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Lucrezio, La natura, a cura di F. Giancotti, Garzanti, Milano, 1994.
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Platonis opera, a cura di J. Burnet, Oxford University Press, Oxford 1900-1907.
Plutarco, Il volto della Luna; tr. it. di L. Lehnus, Adelphi, Milano, 1991.
La sapienza greca, vol. II, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano, 1978, 1992.
10b. Bibliografia secondaria
Bertozzi M., La tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di palazzo Schifanoia, Sillabe, Livorno, 1999.
De Santillana, Processo a Galilei, Mondadori, Milano, 1960.
De Santillana G., The Origins of Scientific Thought. From Anaximander to Proclus. 600 B.C. to 500 A.D., The University of Chicago Press, Chicago, 1961; tr. it. di Giulio De Angelis, Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze, 1966.
De Santillana G., Prologue to Parmenides, Lectures in Memory of Louise Taft Semple, Princeton N.J. 1964; tr. it. di A. Passi, Prologo a Parmenide in Fato antico e fato moderno, Milano [1985] 1993, pp. 79-153.
Michiel M.A., Dürer. L’opera incisoria, F. Martella Editore, Padova, 2002.
Musti D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza, Bari, 2010.
Popper K.R., The World of Parmenides. Essays on the Presocratic Enlightment, London 1998; ed. it. di F. Minazzi, Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, Casale Monferrato 1998.
Verdet J.-P., Une histoire de l’astronomie, Editions du Seuil, Paris 1990; tr. it. di L. Sosio, Storia dell’astronomia, Longanesi, Milano, 1995.
Russo L., La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, Milano, 2001.
AA.VV., Dal Poggetto P. ed., Piero e Urbino. Piero e le corti rinascimentali, catalogo della mostra tenutasi a Urbino, Palazzo Ducale e Oratorio di San Giovanni Battista, 24 luglio – 31 ottobre 1992, Marsilio, Venezia, 1992.
10c. Pagine internet
http://it.wikipedia.org/wiki/De_pictura (5 xi 2012)
http://it.wikipedia.org/wiki/Galileo_Galilei (4 xi 2012)
10d. Illustrazione
Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo (1444-1470); da Laskowski B., Piero della Francesca, collana Maestri dell’arte italiana, Gribaudo, Milano, 2007; cf. http://it.wikipedia.org/wiki/File:Piero,_flagellazione_11.jpg
1 È chiamata “Ionia” la fascia costiera dell’Asia Minore che si affaccia sul mar Egeo; essa era abitata da coloni greci, il cui gruppo più folto ero di etnìa “ionia”. Per estensione, veniva chiamata “Ionia” qualunque terra abitata da coloni ioni, o greci in genere, anche fuori dell’Asia Minore, p.es. in Italia Meridionale. Il periodo di massima prosperità delle colonie greche in Asia Minore e in Italia Meridionale durò dal VII all’inizio del V sec. a.C., e diede luogo a un grande fermento culturale, i cui principali lasciti alla posterità sono (1) i poemi omerici, (2) la poesia lirica greca, (3) un inizio di matematizzazione della musica, (4) l’invenzione dei principali modelli dell’architettura greca, (5) l’origine della ricerca sul mondo naturale senza pregiudizi religiosi, (6) l’invenzione della ricerca storica, (7) l’invenzione del metodo assiomatico in geometria, (8) l’inizio dell’applicazione di modelli geometrici all’astronomia, (9) lo studio degli organismi politici condotto da un punto di vista privo di presupposti religiosi, (10) una medicina, rozza quanto si vuole (e d’altra parte era difficile fare di meglio, senza una scienza chimica e senza microscopio), ma comunque espurgata da elementi magici, e (11) – cosa a mio avviso più importante di tutte – l’abolizione del principio di autorità, ovvero l’idea che l’unico metro su cui misurare la validità di un’affermazione è la forza degli argomenti razionali o empirici su cui è fondata. Tralascio le conquiste che risultarono dalla cooperazione di una o più di queste istanze: p.es. lo sviluppo dell’urbanistica, che risultò da una combinazione dei fattori 4 e 9; o la creazione del concetto di individualità soggettiva tutt’ora a noi familiare in Occidente, che deriva dai (o forse fu all’origine dei) fattori 1, 2, 6, 9 e 11 (con particolare rilevanza del 2). Sulla storia e la cultura delle colonie greche in Asia Minore e Italia Meridionale, un buon testo introduttivo è Musti, 2010. Sulle conquiste cosmologiche dei Presocratici, celebratissimo e influentissimo è Popper, [1998] 1998; ma io trovo molto più incisivo, stringente e al contempo equilibrato De Santillana, [1964] 1993.
2 Con lo spostamento del centro di gravità del mondo greco dalle città della Ionia e della Magna Grecia, politicamente organizzate in maniere continuamente cangianti, e che nella loro caoticità permettevano il formarsi di linee di pensiero sempre diverse, ad Atene, dove vigeva la democrazia diretta (salvo sporadici colpi di stato oligarchici), iniziò a diventare pressante la problematica del potere sovversivo della scienza e della filosofia: né il popolo né l’aristocrazia ateniese, sia pure per motivi diversi, vedevano di buon occhio dottrine che minassero la religione tradizionale, la quale costituiva, per entrambi questi gruppi politici, il fondamento della visione del mondo condivisa, sulla quale si reggeva il vivere civile. Molti aristocratici coltivavano le scienze mirando però a tenere il popolo nell’ignoranza; quanto al popolo ateniese, esso era molto attaccato alle proprie tradizioni: e furono proprio i democratici a intentare cause per “empietà” contro Anassagora (che preferì fuggire da Atene) e Socrate (che, com’è noto, scelse di andare incontro alla morte). Su questi argomenti le fonti sono ben reperibili in qualunque compendio di storia greca, ed è inutile che io ne indichi di precise.
3 Devo confessare di non sapere se vi siano altri studiosi che abbiano già proposto questa interpretazione.
4 Per quanto riguarda in particolare la cosmologia, due ottimi testi introduttivi, su questo punto, sono De Santillana, [1961] 1966 (pp. 27-115, 249-275) e Verdet, [1990] 1995.
5 A causa dell’ignoranza, in Occidente, della lingua greca.
6 E dunque il Medioevo aveva accantonato p.es. l’atomismo, preferendo puntare sulla concezione aristotelica dei 4 elementi; e aveva accantonato anche l’idea – aristotelica, questa – che il mondo sensibile obbedisca a delle sue proprie leggi, preferendo per ovvii motivi l’idea agostiniana del mondo messo in moto da Dio; o ancora l’idea pitagorica della matematica come chiave di tutte la realtà fisiche, che il Medioevo non poteva che trovare ostica, avendo una concezione del mondo fisico ispirata a quella biblica, per la quale il mondo viene creato con la “parola” (divina, ovviamente) – e su questo punto adottare la concezione platonica, variamente mescolata con quella aristotelica, fu per i medioevali una sorta di compromesso.
7 Uno degli ultimi filosofi pagani, vissuto nell’Impero Romano d’Oriente nel 410-485 d.C., quando già il Cristianesimo stava per far chiudere bottega alle scuole di filosofia.
8 Cf. De Santillana, [1961] 1966, p. 321.
9 Tralasciando le speculazioni sui fondamenti logici della matematica, circa i quali molti storici della scienza (così p.es. De Santillana, [1961] 1966, pp. 113, 115, 241) ritengono che Zenone di Elea avesse già compiuto dei passi paragonabili a quelli del XVII sec., e che Eudosso fosse giunto addirittura a un livello paragonabile a quello di Dedekind, ma dei quali non posso in prima persona giudicare, non avendo mai letto Eudosso e non essendo io esperto di logica matematica, si può tranquillamente menzionare il debito che Galilei e gli analisti del XVI e XVII secolo contrassero con Archimede, visto che sia Galilei sia gli analisti del ‘600 dichiarano esplicitamente di aver cercato di imitare sia i metodi euristici dello scienziato siracusano sia la sua tendenza ad applicare la matematica al mondo fisico, e a ricercare le spiegazioni dei fenomeni fisici in base a modelli matematici. Per quanto riguarda in particolare i metodi euristici, nel 1906 è stato scoperto dal filologo Heiberg il trattato Sul metodo di Archimede, nel quale lo scienziato siracusano spiega in che modo sia vantaggioso unire, nelle ricerche fisiche, la teoria matematica con la costruzione di modellini concreti sui quali sperimentare se la predizione fatta in base al modello matematico è efficace: in pratica, Archimede aveva inventato, nel III sec. a.C., il metodo sperimentale di Galilei (cf. De Santillana, [1961] 1966, pp. 246-247, con citazione da Archimede).
10 È inutile citare questo o quel luogo preciso a proposito di dottrine che si trovano sparpagliate in moltissimi luoghi dei filosofi in questione. Per le edizioni e le traduzioni accessibili al lettore italiano, cf. la bibliografia in appendice al mio testo.
11 Per i frammenti e le testimonianze relative a questa congettura di Anassimandro, cf. Colli, [1978] 1992 11B15a-c, pp. 194-195. Per una breve sintesi, cf. De Santillana, [1961] 1966, pp. 35-36.
12 Per le notizie essenziali su Aristarco, cf. De Santillana, [1961] 1966, pp. 255-258.
13 De Santillana, [1961] 1966, pp. 268-275.
14 Sulla diretta influenza di questo testo su Copernico, Galilei e Newton (tra il XVI e il XVIII sec. Plutarco è stato l’autore non religioso più universalmente letto dall’uomo colto europeo), cf. De Santillana, [1961] 1966, p. 267.
15 Alcune interessanti annotazioni sull’atteggiamento di protestanti e cattolici nei confronti di Copernico si trovano in Verdet, [1990] 1995, pp. 89-98: pare che in una prima fase, a ridosso della pubblicazione del De revolutionibus, Calvino e Lutero considerassero Copernico un folle pericoloso, mentre la chiesa cattolica non era aliena da una apertura possibilista; tutto mutò, in ambiente cattolico, col Concilio di Trento (1545-1563).
16 Ecco perciò fiorire, proprio negli ambienti più innovativi, quale fu il circolo ferrarese di Pellegrino Prisciani (1435-1518), interessi che a noi sembrano senz’altro superstiziosi, p.es. l’astrologia, di cui abbiamo, a pochi passi da qui, un esempio eclatante in palazzo Schifanoia. Il fatto è, che nel XV secolo, al crinale tra Medioevo ed età Moderna, gli intellettuali cercavano ovunque concezioni che potessero rappresentare un’alternativa a quella medioevale, e l’astrologia, col suo sistema di relazioni ‘simpatiche’ tra macrocosmo e microcosmo, sembrava una possibilità valida quanto qualunque altra. Sulle concezioni astrologiche soggiacenti alla ciclo pittorico di Schifanoia, cf. Bertozzi, 1999, pp. 29-30.
17 Proprio come ai pitagorici antichi l’aveva insegnato la pratica musicale.
18 Verdet, [1990] 1995, p. 41.
19 Verdet, [1990] 1995, p. 50.
20 Il cannocchiale fu inventato da Johann Lippershey o Lipperhey (1570 – 1619), un occhialaio tedesco naturalizzato olandese, non certo allo scopo di osservare la Luna (cf. http://it.wikipedia.org/wiki/Galileo_Galilei consultata il 4 xi 2012).
21 Il De prospectiva pingendi o De perspectiva pingenti di Piero della Francesca è stato scritto tra gli anni ’60 e ’80 del ‘400, e terminato prima del 1482; il De pictura di Leon Battista Alberti era già comparso nel 1435, per poi essere tradotto nel 1436 in volgare, con dedica a Brunelleschi (cf. http://it.wikipedia.org/wiki/De_pictura consultata il 5 xi 2012).
22 L’astronomo antico si preoccupa certamente che la teoria produca un modello il più possibile conforme all’osservazione: “salvare i fenomeni” è la frase che, nel gergo tecnico antica, indica questa specifica istanza della prassi astronomica. Ciò di cui l’astronomo non si preoccupava, era che il modello geometrico fosse conforme a questa o quella teoria fisica: all’astronomo bastava che il modello geometrico riproducesse i moti osservati in Cielo; congetturare come poi bisognasse immaginare realizzato in natura questo modello, spettava al filosofo naturale. Questa partizione di compiti faceva sì che l’astronomo escogitasse talora modelli geometrici difficilmente immaginabili in natura (p.es. perché presuppone che due sfere presunte solide incrocino, compenetrandosi, i rispettivi moti). Sul rapporto tra lavoro dell’astronomo e lavoro del ‘fisico’ nella generazione di Platone e Aristotele, cf. Verdet, [1990] 1995, pp. 34-60.
23 Anche da questo punto di vista è lecito il paragone con l’età presocratica.
24 Come giustamente nota Verdet, [1990] 1995, p. 142, Galilei stesso, col cannocchiale, scambiò l’anello di Saturno per due satelliti. Cosa più importante di tutte, non vi era una teoria ottica che desse ragione in modo soddisfacente del funzionamento del cannocchiale: nella sua costruzione si era proceduto ‘per tentativi’.
25 Cf. Verdet, [1990] 1995, p. 86.
26 Ottima la sintesi di Verdet, [1990] 1995, p. 81, della differenza tra il carattere a posteriori del lavoro dell’astronomo nei parametri tolemaici e quello a priori dell’astronomia copernicana: nel sistema di Copernico, una volta fissate le ipotesi principali (posizione centrale del Sole, ordine in cui i pianeti si trovano rispetto al Sole, e poche altre), si tratta di verificare e falsificare i dettagli; in quella tolemaica, ogni singolo elemento del mosaico generale (p.es. quante sfere muovano ciascun pianeta) va escogitato volta per volta, e il modello generale viene costruito a partire dai suoi componenti, per aggiunta di parti.
27 Copernico raggiunge una maggiore precisione, rispetto a Tolomeo, prendendo un punto di riferimento meno relativo: prende come punto di riferimento della descrizione dei moti non più la Terra, cioè l’osservatore, bensì il “centro del moto circolare uniforme [int. apparente] delle stelle” (Verdet, [1990] 1995, p. 80). Descrivere i moti non più in base a coordinate che prendono come punto di riferimento la Terra, bensì la sfera immaginaria su cui vediamo proiettate le stelle, è la mossa che rende possibile pensare il moto della Terra, prima ancora che ci si predisponga a provarlo o confutarlo (cf. anche ib., pp. 67, 79). Finché prendo la Terra come punto di riferimento rispetto al quale descrivere i moti degli altri corpi, sto presupponendo che sia immobile.
28 Le procedure usate da Keplero e descritte da Verdet, [1990] 1995, pp. 126, 134) mostrano che il chiodo fisso dell’astronomo tedesco, nell’affrontare qualunque problema, era ‘trovare la costante’.
29 Citato in Verdet, [1990] 1995, p. 147.
30 Il metodo ipotetico, ispirato a Platone dalla geometria del suo tempo, è descritto nei libri VI e VII della Repubblica. Aristotele lo raccomanda per la scienza negli Analitici posteriori.
31 Le procedure euristiche che Verdet, [1990] 1995, pp. 103-109, attribuisce a Keplero restituiscono un personaggio intellettualmente assai più simile a come gli antichi vedevano Pitagora che non a come il XIX sec. vedeva Newton.
32 Verdet, [1990] 1995, p. 78.
33 P.es. matematica e ricerca sulla natura cessano di cooperare più o meno al tempo di Platone, inibendo quegli inizi di ‘fisica’ che c’erano stati fino ad allora (cf. De Santillana [1961] 1966, p. 290).
34 il “quasi” intende escludere platonici ed aristotelici.
35 E questo rilievo vale senza “quasi”: comprendendo cioè tutte le scuole filosofiche, compresi aristotelici e platonici.
36 La divisione tra scienza e filosofia (il momento, cioè, in cui dallo scienziato-filosofo, o filosofo-scienziato che dir si voglia, si passa alla cooperazione tra figure distinte) inizia all’Accademia di Platone e prosegue nel Liceo di Aristotele: non ancora in biologia (Aristotele conduceva in prima persona le proprie ricerche biologiche), ma di sicuro in astronomia: nel momento in cui Eudosso e Aristotele si separano i compiti, ed Eudosso crea modelli geometrici per una ‘fisica’ di cui si disinteressa, modelli che Aristotele userà senza averli egli stesso costruiti, usciamo dalla matematica di stampo pitagorico che prometteva di produrre una fisica quale la intendiamo noi sulla scorta di Galilei (De Sant., [1961] 1966, pp. 253, 264). Presto (nel giro di un secolo dalla morte di Aristotele, ma ad Alessandria, cioè fuori della sua scuola) quel che era già accaduto all’astronomia accadrà anche alla biologia. De Santillana, autore di un libro sul processo a Galilei (1960), si lascia fuorviare da schemi mentali desunti dalla storia della scienza moderna, quando chiama in causa una responsabilità unidirezionale da parte di religiosi e filosofi retrogradi circa il blocco della scienza nella tarda antichità ([1961] 1966, pp. 261, 264). Il blocco ci fu, ma non ci fu alcuna persecuzione (di cui per altro non abbiamo alcuna notizia), e neppure ‘inibizione pacifica’: ci fu, invece, separazione consenziente (dunque, se proprio di “colpa” vogliamo parlare, si tratterebbe di “condivisione di colpa”), come mostra appunto il caso di Eudosso ed Aristotele.
37 Aggiungo: in vista – secondo il filosofo greco – del ben essere dell’essere vivente di cui è anima, e non in vista del ben essere della specie umana, come invece tramanda una vulgata, la cui diffusione è forse dovuta al fatto di essere menzionata da Galilei nel Dialogo sui massimi sistemi e attribuita ad Aristotele dal suo ‘portavoce’ Simplicio (p. 85 dell’Edizione Nazionale). L’anima, cioè il principio vitale posseduto da piante e animali (esseri umani inclusi), è definita da Aristotele come capacità, da parte di un corpo organizzato, di svolgere le attività di crescere e nutrirsi nel caso di piante e animali, sentire e percepire per quanto riguarda i soli animali, pensare per quanto riguarda gli animali umani (Aristotele, Sull’anima, II 1-3, passim; il brano di cui ho svolto qui una parafrasi è II 1, 412a27-28).
38 Nell’osservazione del parallelo sviluppo di cuore e organismo intero, compiuto su cadaveri di embrioni animali di diversi mesi di età, Aristotele vede la conferma empirica del cardiocentrismo (trattato Sulla generazione degli animali, passim). Mi è stato detto che la rete dei nervi che unisce il cervello al resto del corpo è soggetta a putrefazione molto più rapida di quella delle vene e delle arterie: il che spiegherebbe come mai scienziati, quali erano quelli dell’età classica, che potevano dissezionare solo animali morti non abbiano dato al cervello un’importanza che a noi può apparire ovvia; non essendo un medico o un biologo, non posso però sapere se questa informazione che ho ricevuto è vera o falsa; se verificata, essa sarebbe un’ovvia spiegazione del perché la rete dei nervi sia stata scoperta solo in età alessandrina, da Erofilo ed Erasistrato, che praticavano la vivisezione sui criminali, e ne teorizzarono la sostenibilità etica (questa informazione è riportata con ammirazione da Celso, Della medicina 23-26; per correttezza devo ammettere di non aver consultato direttamente il testo di Celso durante la stesura di questo mio lavoro: ho trovato il passo di Celso, di cui avevo memoria, digitando in google, il 9 xi, “Erofilo+Erasistrato”).
39 Del proto-evoluzionismo di Anassimandro non sappiamo nulla, salvo che Anassimandro lo propose. Meno ancora sappiamo di quello di Democrito, circa il quale le sole informazioni sono quelle ricavabili dal De rerum natura di Lucrezio, che però espone la dottrina di Epicuro, non perfettamente sovrapponibile a quella di Democrito.
40 Cf. Empedocle, fr. 7 Gallavotti.
41 Anche se questi esseri ‘semplici’ che Aristotele crede possano nascere dalla materia inorganica non sono affatto, in realtà, quelli che la biologia attuale considera del livello di semplicità appropriato a fungere da ‘anello di congiunzione’ tra organico e inorganico. Sulla così detta “generazione spontanea”, Aristotele ci ha lasciato solo singoli spunti, sparpagliati nel trattato Sulla riproduzione degli animali: i principali sono in I 1, 715a21-25, II 3, 737a3-5, III 1, 762a19-30. A chi fosse interessato posso inviare il testo di un intervento che svolsi al seminario di Storia della filosofia antica diretto dal prof. G. Cambiano nell’a.a. 2004/05, nel quale esamino tutti i passi rilevanti per la ricostruzione della teoria di Aristotele.
42 Basta prendere come unità concreta che istanzia l’èidos immutabile non la singola specie, ma l’intero svolgimento della vita nel cosmo: a questo punto si ipotizza un ciclo di cosmi che si susseguano all’infinito, proprio come in Empedocle o in Anassimandro, e il gioco è fatto. De Santillana ([1961] 1966, p. 223) ritiene che la concezione aristotelica di Forme (questo vuol dire “èidos”, pl. “èidē”, prima ancora che “specie”) immutabili escluda qualunque ipotesi evoluzionistica; ciò è vero solo a due condizioni: (1) che la forma in questione sia quella della singola specie vivente; (2) che si includa nella lista delle forme/specie solo quelle realmente concretizzate in esseri effettivamente viventi nel tempo considerato: se nella lista delle forme/specie includiamo, vice versa, tutte le forme/specie possibili (come potrebbe fare p.es. un Leibniz), nulla osta a che le forme siano immutabili e che però, nel corso della storia della vita sulla Terra, l’evoluzione ne concretizzi ora alcune ora altre. Curiosamente vicina a quest’ultima idea, e in contrasto col giudizio già prima espresso, è la caratterizzazione dell’evoluzionismo data da De Santillana come “gioco del Tempo con le Forme aristoteliche, con la Necessità che getta i dadi” ([1961] 1966, p. 230). Sembra quindi che De Santillana stesso si renda conto che porre senz’altro le idee di forma essenziale e di evoluzione come incompatibili sia una semplificazione eccessiva: molto dipende da altri assunti che, nel costruire la teoria, potremmo o dovremmo inserirvi o toglierne.
43 Le opere superstiti di Aristotele ammontano a 1462 pp. in folio dell’ed. di riferimento, equivalenti a 2924 colonne. Di queste, circa 350 pp., cioè 700 colonne, quasi ¼ del totale, sono dedicate a osservazioni anatomiche o embriologiche.
44 Si chiama “ellenismo” (agg. “ellenistico”) quella fase della storia antica in cui la cultura greca (“ellenica”) si trova a mescolarsi, fuori della Grecia, con le culture dei popoli non greci entrati nella sfera culturale greca a causa delle conquiste di Alessandro Magno. La durata di questo periodo è di circa 300 anni (dalla morte di Alessandro Magno all’unificazione del Mediterraneo da parte dei Romani con la battaglia di Azio: 323 a.C. – 31 a.C.). Da un certo punto di vista, si potrebbe considerare anche la massiccia importazione di elementi greci nella cultura romana come un tipico fenomeno ellenistico (seppure di un ellenismo avvenuto su iniziativa del popolo non greco in questione); in tal caso, la durata dell’ellenismo si estenderebbe fino all’inizio del IV sec. d.C., abbracciando quindi ben 600 anni.
45 Questi giudizi, di De Santillana (1961] 1966, p. 289), trovano riscontro nel progresso lentissimo della scienza romana rispetto a quella ellenistica: progresso, tra l’altro, avvenuto solo su strade già tracciate in precedenza: ciò che manca è l’immaginazione creativa (De Santillana, 1961] 1966, p. 264).
46 Cf. De Sant., 1961] 1966, p. 281. La figura dell’ingegnere alessandrino, da cui discenderà quello al servizio dell’Impero Romano, è ben rappresentata da Erone (II-I sec. a.C.).
47 Ristampa anastatica: Ayer Company Publisher, Salem 1988.