E’ pronto cena?

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Mi ha sempre divertito tentar di risalire qualche generazione addietro

per conoscere quelle che furono le origini della mia famiglia. La mia

stirpe non è né blasonata né alto borghese. Non ci furono nobili

imprese, gloriose avventure commerciali o rimarchevoli conquiste

scientifiche che fossero degne esser tramandate ai posteri in forma

scritta. Poche sono dunque le notizie che mi sono pervenute.

Ma alcune di esse sono curiose. Questa storia vera, che si svolge

pressappoco nella seconda metà dell’800, mi fu raccontata quand’ero

piccolo, come fosse una novella, dalla mi’ nonna Beppina, che era la

nipote del protagonista. Narra le vicissitudini dei nonni di mia nonna,

ovvero Aristide e Maria (per la verità i nomi non sono esattamente

questi perché non li ricordo più, ma sono simili o quantomeno

verosimili).

Per quanto ne so i miei ascendenti in linea paterna erano barrocciai

da parte di mia nonna e falegnami da parte di mio nonno. Non che

ciò corrispondesse ad una condizione di povertà. Nell’800, quando

la maggior parte degli uomini erano braccianti, mezzadri, manovali

o servitori di qualche possidente, il disporre di un carro trainato da

cavallo o di una bottega di falegname significava già appartenere

ad una categoria sociale appena un gradino superiore rispetto

alla umile condizione dei più. Si può forse dire che il falegname di

allora corrisponda ad un piccolo imprenditore odierno, così come il

carrettiere al titolare di una impresa di trasporti di oggi.

Il barrocciaio, in particolare nelle comunità rurali e nei piccoli paesi,

era probabilmente quello che oggi si dice un uomo di mondo, un

personaggio romantico e talvolta tenebroso. Mentre la maggioranza

degli esseri umani veniva alla luce, viveva e veniva sepolta nel ristretto

ambito della terra natia e senza aver notizia di quel che succedesse

pochi chilometri più in là, il barrocciaio traeva dal suo lavoro il beneficio

di conoscere, viaggiando con il carro carico di merci, individui e luoghi

diversi. Nel suo pur limitato girovagare di poche decine di chilometri

poteva incontrare persone, bazzicare osterie, frequentare fiere di merci

o del bestiame, raccogliere informazioni da riferire al rientro a casa,

superare vicissitudini, trascorrere qualche notte sotto un tetto diverso

da quello natìo e, probabilmente, perfino aver a che fare con femmine

diverse da quella che, a casa, accudiva alla prole durante la sua assenza.

Il carrettiere era solitamente un uomo sbrigativo, capace di difendere

sé stesso, il suo cavallo e le sue merci da eventuali malintenzionati che

si presume, allora come ora, non mancassero. Fisicamente Aristide non

era un uomo robusto, era anzi piccolo e segaligno. Forse a cagione di

questa sua caratteristica fisica era scontroso e di poche parole, uno

che intendeva farsi rispettare insomma. Lui non voleva mosche al naso,

teneva a bada il prossimo con una certa autorità, lasciando subito

intendere di non essere disponibile a farsi mettere i piedi in capo.

Vestiva, come si conveniva al suo mestiere, con i modesti panni del

barrocciaio. Ma quando era a casa, ovvero tra un trasporto e l’altro,

si compiaceva di indossare un paltò scuro, un cappello a larghe tese

portato sulle ventitré, e d un mezzo toscano spento tra i denti. In casa

figli e moglie, essendo Aristide indiscusso capo della famiglia, avevano

di lui un timore reverenziale. Per ottenere quello che voleva non c’era

bisogno che proferisse comandi, quando in casa c’èra lui i ragazzi non si

permettevano certo di far baccano. Nessuno si azzardava a disturbare

le fumate di sigaro che si godeva in silenzio, osservando le dense volute

di fumo avendo la maniacale cura di non far cadere la cenere che, fino

alla fine, restava in bilico sulla minuscola cicca. Tutti avevano imparato

a prevenire quello che volesse ed anticipavano servili i suoi bisogni.

Accadde una bella volta che, dopo aver atteso per giorni il rientro del

marito dal suo viaggio, la moglie si dovette rassegnare al fatto che

non sarebbe più tornato. Dove fosse andato non si sa, né si poteva

sapere. Non si seppe se fosse vivo o morto, magari caduto per cause

naturali (o per mano altrui) in qualche fossato lungo il percorso del

barroccio. Quasi certamente Maria avrà pur tentato di informarsi

discretamente presso qualcuna tra le più riservate donne del vicinato

ma, o che non abbia avuto risposta o che abbia avuto notizie tali da

non essere divulgabili per il buon nome della famiglia (la nonna mia

accennò vagamente a me la possibile fuga con qualche femmina dai

facili costumi) fatto sta che sul motivo certo della scomparsa solo il

silenzio è stato tramandato a noi.

Potete immaginare che, d’un colpo, la tranquilla vita della mite Maria

abbia subito un notevole mutamento. Una donna che si ritrova sola,

con cinque piccoli da mantenere, senza un capofamiglia che porti

soldi a casa e garantisca la rispettabilità della sua donna e dei suoi

figli nella piccola comunità del paese, senza un lavoro, additata dalla

gente per essere una vedova bianca. … Beh, sarebbe difficile al giorno

d’oggi, figuriamoci come lo sia stato nella seconda metà di un ‘800

economicamente e culturalmente arretrato.

Maria doveva essere, per quanto modesta e remissiva, una donna

forte e per bene. Con dignità e sacrificio riuscì pian piano a risollevarsi.

Finite le poche risorse accantonate si ingegnò. Forse cucendo qualche

vestitino per le poche dame compravano, forse affaticandosi a lavar la

biancheria di qualche famiglia benestante forse con l’aiuto di qualche

parente, fatto sta che riuscì sempre a racimolare quanto necessario per

crescere i figli. E così passò un anno, due, tre.

Una sera all’imbrunire, i ragazzi scorrazzavano per casa facendo

confusione. Maria si apprestava a mettere in tavola quel che c’era

da mangiare. Ad un certo punto… si ode il rumore di una chiave

che, infilata dall’esterno, aziona le quattro rumorose mandate della

serratura d’ingresso. Immediatamente in casa esplode, misto al

batticuore ed alla curiosità, il più completo silenzio. Dodici occhi

muti si volgono e fissano la porta. Con un lieve cigolio l’uscio s’apre.

Appare una figura scura che entra lentamente, si toglie il paltò scuro,

lo appende e posa il cappello sulla mensola. Poi si volta, si siede a

capotavola con calma, si toglie il mezzo toscano di bocca e lo appoggia

sul tavolo e, con voce stentorea, domanda: << E’ pronto cena?>>

Babbo è rientrato. Rapida e silenziosa Maria gli serve una scodella

traboccante di minestra.

Alessandro Tantussi

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