Sono Amico di un Piccione

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Sono amico di un piccione. Oddio, lo confesso, tra di

noi non c’è un grande rapporto. Ma è comunque la

relazione più interessante che ho potuto stabilire dal

mio letto di ospedale. Son dieci giorni che “abito” in

questa camera, solo ed immobilizzato a letto. Non

ho la televisione (sul tetto non c’è antenna). Si è

perfino rotto il PC portatile che mi collegava al

mondo via internet. Moglie e figli vengono

regolarmente a farmi visita due volte al dì, ma le ore

di passo son poche, mentre il giorno, e soprattutto

la notte, son lunghi assai. Tutto è immobile nella

camera nuovissima: l’armadio, l’altro letto vuoto, il

comodino su ruote accanto al letto vuoto, il mio

comodino, le mensole su ruote per consumare i

pasti a letto, due sedie, un piccolo tavolo rotondo.

Arredamento banale ma confortevole, tutto giocato

nei toni del grigio e verde pisello, entrambi molto

chiari. Riposante? Sì, forse, il primo giorno! Ben

presto diventa il monotono sfondo di un episodio di

vita che già di per sé non si può certo definire

eccitante. Chissà, forse se avessero dipinto i muri di

un bel giallo caldo, con arabeschi in viola combinati

con figure geometriche in bluette e rosso… beh,

magari avrei potuto passare il tempo a scrutare le

pareti. I due letti, con tutte le loro attrezzature

elettriche per alzarsi abbassarsi ed inclinarsi, sono

monumentali. Dopo aver osservato con attenzione

ogni meccanismo del letto ortopedico, ogni presa di

corrente, ogni attacco per ossigeno ed altri gas

medici, ogni interruttore sulla parete di fronte e

dopo aver mosso il letto elettricamente (alza e

abbassa lo schienale, alza ed abbassa le gambe,

inclina il letto in giù ed in su) non so cos’altro fare.

Sovrano regna il silenzio. Ed è meglio così, ad

interromperlo possono soltanto arrivarmi, ogni

tanto, le urla di qualche sfortunato condomino delle

stanze accanto, meglio il silenzio. Sdraiato, con gli

occhi al soffitto, fisso l’apparecchio antincendio

assicurato al cielo della mia stanza, al centro. Nel

meccanismo, sempre pronto a spruzzar acqua

sul’eventuale fuoco che si dovesse sprigionare

all’improvviso dalle poche suppellettili, c’è una

lucina rossa che si accende e si spenge, si accende e

si spenge, si accende e si spenge… Quella spia

intermittente, se si esclude il sottoscritto, è l’unica

cosa viva nel mio statico universo locale. Converrete

con me che è un po’ monotono. Non di rado mi

concedo una botta di vita e accendo una sigaretta.

Avveleno i polmoni e distraggo la vista con le volute

di fumo. Ma come, direte voi! In ospedale? Non si

può! Beh, se fate parte di quei “crociati” integralisti

sempre pronti a scagliarsi contro gli inquinatori da

tabacco ve ne dovete fare una ragione. Io sono un

tossicodipendente conclamato, punto. Se fossi un

consumatore abituale di coca, eroina o altre

sostanze simili sarei socialmente pericoloso e sotto

tutela del SERT. Probabilmente la premurosa

collettività civile si farebbe carico del mio problema

nell’intento di guarirmi. O quantomeno di limitare la

mia pericolosità sociale. Invece sono un innocuo, per

quanto inquinante, fumatore di banali sigarette,

nemmeno di “erba”. Il Monopolio del tabacco mi

coccola per il contributo fiscale che devolvo grazie al

bollino incollato sopra ogni pacchetto di sigarette.

Su quel bollino c’è perfino lo stemma della

Repubblica Italiana, come dire: il fumo puzza ma la

pecunia non olet. Non mi risulta che gli altri drogati

non da tabacco, contribuiscano al pareggio del

bilancio dello Stato Italiano (obbligo recentemente

assurto a norma di rango costituzionale) come faccio

io. Nonostante ciò mi capita di esser trattato da

untore, anche dallo Stato che lucra su di me e sul

mio vizio. Comunque sia io fumo. Perché mi va e

perché son piccoso. Infermieri, medici personale di

servizio se ne sono accorti, tutti. Sia che abbiano

pietà di un povero infermo, o sia piuttosto che non

voglian beghe, fatto sta che chiudono un occhio. In

altro ospedale mi è capitato perfino che, dopo le

due di notte, le infermiere/i di turno in crisi di

astinenza da nicotina si radunassero in camera mia

per un piccolo “fumo party”. Questa digressione sul

fumo non è fine a sé stessa, mi è servita per spiegare

il perché io debba necessariamente tenere aperta la

porta del terrazzino onde evitare che le esalazioni da

combustione della sigaretta si diffondano per tutto il

reparto. E qui entra in scena il piccione amico mio

che svolazza e atterra sul terrazzino. E’ magrolino,

nero, con le zampette rosse che terminano con tre

dita esili, lunghe ed adunche come le rughe agli

angoli degli occhi delle signore di mezz’età (che son

dette zampe di gallina ma che si potrebbero

chiamare anche zampe di piccione). Si muove in

modo silenzioso, ritmato ed un po’ goffo, il piccione.

Mi piacciono i suoi passettini, corti e secchi.

L’incedere è veloce e ritmato. Il moto delle gambine

è scandito da un altrettanto leggero movimento a

destra e sinistra, non ondeggiato ma a scatti, del

corpo. E, forse per favorire l’andatura e

l’avanzamento, la testa e il collo si muovono in

avanti a tempo con ogni passo. Il mio amico come

vede una briciola fa scattare rapidamente in avanti

la testa e… tic, becca. Il tutto nella perfetta assenza

di rumori. Ma l’assenza di rumori non sembra vera.

Nella mia mente, forse obnubilata dalla solitudine e

dal silenzio, quei piccoli movimenti a scatto si

configurano come tanti piccoli ed impercettibili click

di un congegno meccanico. Tre passettini avanti: tic,

tic, tic. Una beccata: tiiic. Quattro passettini a destra

e una beccata: tic, tic, tic, tic, tiiic. Non si capisce

cosa becchi, se non qualche granello di polvere, ma

la fame deve esser tanta. Il vitto dell’ospedale non è

precisamente da encomio, ma il digiuno del mio

amico deve essere persino peggiore. Si è accorto,

l’affamato, di come tutto nella mia camera, io

compreso, sia immobile ed inanimato. Con l’andare

dei giorni ha preso confidenza e si è risolto ad

avventurarsi al di qua della soglia. Pericoli non ne

corre. Sarà che siamo diventati amici, sarà che ha

capito che non posso alzarmi dal letto. Sia quel che

sia: se la fame leva il lupo dal bosco beh, vi posso

assicurare che toglie anche il piccione dal terrazzino.

Ma al coraggio non corrisponde la fortuna. Se non

ha trovato niente da mangiare sul balcone figuratevi

cosa può sperare dal pavimento di una linda camera

di ospedale spazzato, inumidito e stracciato tre volte

al giorno. Ad orari fissi. Beh, l’amicizia si vede nel

momento del bisogno ed ho deciso di dargli una

mano. L’unica cosa che l’azienda ospedaliera

concede ai propri degenti in quantità abbondante e

qualità decente è il pane. E’ giunto il momento di

dividerlo da buoni amici. Mi sono preparato sul

comodino un discreto quantitativo di briciole di

mollica appallottolate ed ho quindi iniziato a

gettarle sul terrazzino attraverso la porta aperta.

Tempo cinque minuti ed ecco arrivare il mio amico.

Inizia una sistematica raccolta delle briciole: due

passettini ed una beccata, tre passettini e due

beccate e così via. E’ così veloce, sistematico e

preciso che non riesco a stargli dietro. La mira, poi, è

quello che è, qualche mollica rimbalza sullo stipite e

cade nella camera. Ma nulla deve andar perduto, il

piccione non si dispera, entra e becca le briciole

all’interno. A quel punto smetto di gettarle fuori e

gliele servo direttamente in camera. Non ci sono

problemi per la pulizia, sul pavimento non ne rimane

traccia, il mio amico le spolvera tutte con precisione

certosina. Le molliche cadono e rimbalzano una qua

ed una là. Appena beccata una il piccione opera una

rapida inversione di marcia per raggiungere il

prossimo boccone. Ma il pavimento di linoleum é

lucido e i piedini secchi fanno poco attrito. Nella

foga di fare piazza pulita il piccione scivola. Quando

parte, slitta e i primi due passi non ne determinano il

moto. Quando arriva sulla preda, sdrucciola e

procede di un centimetro o due prima di fermarsi.

Una volta è addirittura scivolato di fianco ed è

caduto per una frazione di secondo.

Ed ecco che, forse distratto perché completamente

assorto nel suo metodico pasto, ma più

probabilmente per intrinseca e ben nota

caratteristica dei piccioni, il mio amico, fra un

boccone e l’altro, senza pensarci due volte, senza

sforzo apparente e senza espressione alcuna mi

spruzza, nel bel mezzo della stanza, una bella

cacatina liquida. Nemmeno l’evacuazione comporta

rumori di sorta ma io me la configuro con un secco

“split”. Il piccione continua imperterrito ed in

silenzio a beccare qua e la, ma io ci son rimasto

come un fesso. E ora? A questo non avevo proprio

pensato. Chissà che dirà la signora delle pulizie. Beh,

tanto domani mi dimettono…

Alessandro Tantussi

One comment to “Sono Amico di un Piccione”
One comment to “Sono Amico di un Piccione”
  1. Simpatico questo piccione!! Sono animali molto intelligenti e determinati, che si legano profondamente a chi si prende cura di loro. Se uno ci sa fare si crea una grande empatia uomo-colombo che va a formare un notevole legame affettivo che poi dura per sempre. Giorgio

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