Non è facile comprendere perché il Presidente Americano abbia improvvisamente deciso, prospettando un intervento militare in Siria, di spingere sull’acceleratore della politica estera nello scacchiere medio orientale. Dopo che, per mesi e mesi, si è lasciato che il regime di Bashar al-Assad mietesse vittime nell’indifferenza del mondo intero, ora improvvisamente l’America riscopre la sua vocazione a difendere i più deboli. Ma un’azione “spot” con lancio di missili non inciderà concretamente sulle sorti delle due fazioni contrapposte, avrà solo l’effetto di provocare qualche centinaio di morti in più. L’iniziativa ha il sapore dell’azione puramente dimostrativa, affidata ai missili che partono dalla flotta dislocata nel Mediterraneo, evitando accuratamente ogni dissenso politico interno che potrebbe derivare dall’impiego di truppe e forse perfino dei bombardieri.
Legittimo il dubbio che l’intento principale sia quello di rilanciare, all’interno ed all’esterno degli USA, l’immagine di Obama e della politica estera Americana quali controllori delle sorti della geopolitica, immagine offuscata dai recenti insuccessi della gestione Obama- Hillary Clinton.
Il dubbio sull’opportunità cresce ove si pensi che recentemente si fanno sempre più insistenti le voci di un crescente ruolo di Al Qaeda tra i “ribelli” che combattono contro il regime di Damasco. Di fronte alle decine di migliaia di vittime del conflitto, la scusa dell’uso di gas nervino appare debole, non saranno certo le poche centinaia di morti provocate dal famigerato Sarin, di per sé arma chimica di distruzione di massa, ma che, tra le altre cose, non è nemmeno certo se sia stato utilizzato dal regime o dai ribelli.
Non è escluso che sulla decisione di Obama abbia avuto il suo ruolo anche la lobby del petrolio. L’intensificarsi delle tensioni in Siria e la minaccia di un intervento occidentale stanno generando nuove pressioni sul prezzo del Brent.
Il greggio con consegna a ottobre è superato gli USD 115 al barile, raggiungendo il livello massimo degli ultimi sei mesi. La tendenza all’aumento del prezzo perdura da luglio, gravato dagli scioperi e dalla conseguente riduzione della produzione in Libia, dai problemi tecnici e sabotaggi alla rete in Nigeria e dal riaccendersi degli scontri in Egitto che potrebbero avere un impatto sul flusso della materia prima attraverso il canale di Suez e la Sumed pipeline, due principali snodi di transito. LIBIA: in seguito agli scioperi delle forze di sicurezza a protezione delle infrastrutture petrolifere (in particolare dei terminal per l’export di Es Sider e Ras Lanuf, Marsa al-Brega e Zueitina) la National Oil Corporation (NOC) ha temporaneamente dichiarato lo stato di forza maggiore. Le proteste hanno ridotto la produzione e l’export di petrolio ai minimi livelli dalla primavera araba (a inizio agosto le esportazioni di oil si sono ridotte a un terzo e si sono attestate a 330.000 b/g).
Non trascuriamo, infine, il possibile intento di contribuire, in un momento in cui la politica monetaria sembra avere esaurito la sua forza propulsiva, al rilancio dell’economia interna degli USA con i “venti di guerra”. A un anno dall’annuncio del terzo intervento di politiche monetarie non convenzionali (Quantitative Easing 3) da parte della Federal Reserve, banchieri ed economisti tornano a parlare della politica monetaria degli USA nell’incontro annuale di Jackson Hole. Il tema centrale è la tempistica con cui portare a termine il ritiro delle misure straordinarie adottate. Le posizioni sono divise tra un intervento immediato (settembre), per evitare che il QE3 cominci ad avere effetti destabilizzanti sull’economia statunitense e su quella degli altri paesi, o dilazionato (dicembre), e consentire un ritiro graduale delle politiche espansive. Nell’ambito del QE3, la Fed sta acquistando 85 miliardi di bond al mese (circa USD 3.000 mld di bond acquistati dall’inizio della crisi del 2008).
Forse la figura di Obama quale emblema di sinistra celebrato dai partiti progressisti Europei merita di essere riconsiderata.