Scovo a caso, lungo il viale della stazione, un ristorante nuovo,
pulito, con un bagno che non invita a indossare il casco e la mascherina da
disinfestatore. Il cibo è ottimo, abbondante, genuino. Ti spinge a voler bene
all’ambiente che te lo elargisce, diventando affezionato avventore, conservando
con cura il biglietto con il numero di telefono e l’indirizzo, parlandone bene agli
amici e ai conoscenti.
La cameriera-tuttofare del suddetto mirabile locale non è esattamente bella,
ad essere onesti. Ma ha occhi da cerbiatta in fuga e un seno svettante sotto la
maglietta candida. Sembra la vergine di un quadro del Quattrocento. È docile,
languida, cortese. Con sguardo puro e voce di zucchero mi fa accomodare in
una saletta privata, completamente riservata a me. Accende il televisore e lo
sintonizza su una telenovela. In altri casi mi verrebbe l’orticaria, ma ascolto
quieto i sussurri dell’attrice che miagola dallo schermo, e mi risultano soavi,
come i monosillabi lievi della dispensatrice di vivande. Finisco per sovrapporre
e identificare le due figure femminee, e quando la diva della soap opera declama
un mieloso “Ti amo” sento un brivido nella schiena, e, seppure con labbra mute,
le rispondo in rima.
Mi richiama alla realtà un grugnito cavernoso. La fanciulla vivandiera
è soggetta alle angherie di un orco. Forse è il padre della donzella, non so, di
sicuro è padrone e tiranno. Urla, bestemmia, impreca, sbraita e sbava veleno
contro di lei, che, placida, obbedisce con un sorriso. Torna civile, l’energumeno,
solo al telefono, se e quando un cliente prenota un tavolo e gli fa pregustare la
moneta contante.
Che fare? Divento un paladino, Orlando, Parsifal, Lancillotto, un poeta
trovatore sdegnato di fronte a una tale ingiustizia nei confronti di un’anima
pura? Oppure divento pavido filosofo, chiudo entrambi gli occhi e me ne
vado facendo finta di niente? Si avvicina intanto l’attimo fatidico del conto e
dell’amaro congedo, e resta vivo e ardente il dilemma che mi lacera. A un certo
punto sento un fuoco dentro, mi alzo, e, con una scusa, entro di soppiatto in
cucina.
La vergine e l’orco stanno amoreggiando: le mani tozze come bistecche al
sangue palpano e percorrono sfacciate le rotondità muliebri e gli anelati anfratti,
neppure troppo angusti, a dire il vero.
Con il gelo nelle membra e nella mente, mi reco barcollante al bancone.
Pago il conto alla muta e pallida signora, prefigurazione della morte, seduta da
tempo immemorabile sullo stesso sgabello con la stessa espressione. Forse è la
moglie rassegnata dell’orco, o magari una semplice commessa. La saluto, senza
sperare neppure un attimo in una qualsivoglia forma di risposta.
?
Risalgo sul cavallo, a motore, e medito a lungo sul “guiderdone” non
ottenuto, strappato, defraudato. Ripongo la lancia in resta, imbraccio il borsone
ed estraggo il cellulare. Provo a chiamare la donna dei miei sogni, la ragazza
che amo da anni, per invitarla al ristorante dell’idillio sfumato e della disfida
mancata, dimenticando in tal guisa, con la forza del suo amore, l’onta subita.
Provo a fare la stessa voce dell’orco. Ride, la mia Angelica, seppure in
sordina. Attende un istante poi mi rivela che ha la serata impegnata, deve andare
al “Drago d’Oro” a bere un calice prezioso di aperitivo Spritz e degustare dorate
patatine con un suo amico che l’ha invitata per l’happy hour.