Antonio Cieri interpretato mirabilmente da Savino Paparella che è anche il regista della rappresentazione, da un testo di Matteo Bacchini, rivive sul palcoscenico del Teatro Era di Pontedera (PI), in un monologo lungo 65 minuti in cui non si ha nemmeno il tempo di respirare. Gli oggetti di scena, essenziali, raccontano la storia dell’anarchico e sembrano anime. Incarnano le barricate di Parma, le attese dei soldati durante la campagna combattuta contro gli austriaci, in cui Antonio, abruzzese, di famiglia contadina, mai uscito di casa prima di allora, appena ventenne, desideroso di vedere e conoscere il mondo, impara a sparare e diventa postino e telegrafista del campo. Invidia come i suoi commilitoni chi combatte in prima linea, perché può mangiare cioccolata ed è trattato meglio degli altri, senza sapere che sarà il primo a morire.
Arriva speranzoso, animato da ideali di libertà e si stupisce di tutto. Il suo racconto immaginario postumo però è sarcastico, disilluso. Il regista immagina il suo punto di vista, il punto di vista di chi ha combattuto durante i moti di Ancona, di chi è stato poi esiliato in Francia perché profondamente antifascista e di chi ha partecipato alla guerra di Spagna, dalla parte dei ribelli di Francisco Franco, dove muore colpito a tradimento da una pallottola alla nuca. Parla anche del suo lato umano, della moglie Cleo, dei due figlioli avuti da lei, della disperazione quando lei muore lasciando lui coi bimbi ancora piccoli.
Parla di tutto questo in un soffio e noi non ce ne accorgiamo nemmeno… La pièce si chiude ad anello, tornando al punto in cui è iniziata, chiudendo il cerchio con maestria: un cronista romano al telefono comunica la morte dell’anarchico commentando il tradimento e preoccupandosi degli errori di grammatica. La vita di Antonio Cieri non è stata vissuta in vano ed il suo ricordo non morirà con lui. Quello che non si capisce vedendo il monologo di Paparella, forse, è però per quale motivo un anarchico combattesse entro le fila e non fosse semplicemente un disertore. Quello che non traspare dalla rappresentazione, ed è difficile da seguire se non si conosce già la storia di Antonio, è perché viene licenziato come ferroviere e mandato in esilio in Francia. Non si capisce questo passaggio perché non c’è un accenno più marcato alla rivista Umanità Nova, da lui fondata… Il suo impegno politico, il suo schierarsi, la sua opera divulgatrice di idee di libertà in barba alle camice nere, forse poteva essere ulteriormente accentata, interessante invece l’accenno ai suoi scioperi come ferroviere, coraggiosi e pericolosi allìepoca, cosa che ormai non vediamo più fare nemmeno dal sindacallista più affermato oggigiorno! Non si capisce perché Antonio Cieri si definisse anarchico come se fosse il nome della squadra di calcio per cui giocava la partita della sua vita, ma alla fine anarchico non riusciva ad esserlo fino in fondo, preso tra le maglie di un sistema in cui c’era sempre qualcun altro che tirava le fila… Circondato da gente che non ci credeva fino in fondo… ( come l’episodio dell’amico a cui lui senza domandare restituisce la pistola, fedelmente e forse ingenuamente).
Antonio Cieri cercava la libertà, ma poi si invischiava in situazioni che non comprendeva nemmeno. Idealista coraggioso fino alla fine.
Chiara Moraglio foto Elena Pirovano, Ilaria Stefani, Fausto Ceccarelli