Il viaggio è una sfida, innanzitutto con me stesso, poiché conosco benissimo i miei limiti linguistici, culturali e sociali. Queste “barriere”, tuttavia mi danno sempre la giusta carica per superarle. Mi piace vagare per le vie delle città e proprio quando mi perdo, trovo me stesso, ovunque sia il posto, lontano o vicino. Posso dire che il viaggio, qualsiasi esso sia, è una trasformazione dell’anima.
L’essere viaggiatore è certo affascinante purché non trasformi l’anima del bambino che è in ciascuno di noi, in un vecchio senza speranza. C’è chi viaggia per lavoro e chi lo fa per questo motivo, alla fine viene divorato dalla routine; il senso di monotonia rende questo tipo di viaggiatore insensibile alle piccole variazioni di vibrazione e vede il tragitto come una semplice linea retta che unisce due punti. Rammento il racconto di un anziano signore alla sua prima esperienza di volo «(…) ero seduto a destra e precisamente nel sedile di mezzo, accanto a me, lato finestrino, un bambino che avrà avuto 6 o 7 anni, intento a guardare fuori in silenzio; io, memore della partenza adrenalinica e delle altezze raggiunte dall’aereo, guardavo il bimbo con un po’ di invidia e le forti emozioni che provavo in quel momento spinsero le mie curiosità verso il giovinetto, il quale mi rispose con una certa disinvoltura e atonia, per lui, al contrario di me, aveva già alle spalle molti voli da solo, dopo che suo pa’ e sua ma’ avevano divorziato. Trovava questo viaggio come i precedenti alquanto noioso e che non vedeva l’ora di riabbracciare la mamma a New York (…)» L’anziano era molto triste, quando me lo raccontava, proprio mentre andavamo a New York.
Generalmente preferisco viaggiare da solo, ma non disdegno la compagnia di sconosciuti viaggiatori, come il caro signore del volo Pisa – New York del 2009. Invece, partire con un gruppo di amici mi renderebbe gregario o leader a seconda delle situazioni, ma mi escluderebbe dal relazionarmi con gli attori presenti nelle varie ambientazioni del mio girovagare. Mi ricordo una scena in particolare, che fino al mio Ultimo Viaggio la ritenevo la più pericolosa. Per una serie di coincidenze pianificate nei minimi dettagli, mi trovai a fare una passeggiata nei pressi della Place de la Bataille de Stalingrad, ma l’aria frizzante di quel mattino del 30 Settembre 2012, mi condusse in una sequenza di scenari sempre più rischiosi, e se solo fossi entrato in quella piazza dal lato opposto, e lo avessi fatto una mezzora dopo, avrei certo perso il treno delle 11 e 25, ma così non fu e potei salutare Parigi diretto a Bruges, in Belgio.
Il mio ultimo viaggio, mi ha portato in quel lembo di terra dilaniato dall’uomo e dimenticato da Dio. Là dove la terra non è la sola ad esser straziata da chi ostenta con violenza il proprio diritto sulla Terra Promessa. Ricevei ospitalità e rifugio presso un Popolo oppresso dalla colpa di essersi trovato là, già da molto prima del 29 Novembre 1947, quando le Nazioni Unite approvarono la partizione di quel territorio con la Risoluzione 181.
Arrivarci, non fu affatto semplice, incontrai molte difficoltà a partire dal momento in cui avevo dato la mia disponibilità per una missione che avrebbe dovuto esser supportata nei minimi dettagli da una Organizzazione di livello Nazionale e gli ostacoli maggiori me li procurò chi doveva invece incoraggiarmi. Ma la mia risolutezza prevalse su ogni reticenza e inettitudine e alla fine, riuscii a prendere l’aereo da Firenze per fare scalo a Roma, dove incontrai l’unica collega disposta ad affrontare insieme a me l’avventura e da perfetti sconosciuti decollammo verso la destinazione finale. Non ebbi alcun problema alla dogana anche se potevo esser trattenuto per ulteriori controlli a causa di un mio precedente viaggio in Algeria; grazie al mio temperamento calmo, alle 4.42 (a.m.) ottenni il visto e finalmente potei raggiungere la collega che già mi aspettava fuori l’aeroporto. Ad ogni modo passammo le due settimane impegnati nelle attività che la comunità locale aveva richiesto all’Organizzazione. Solo adesso, riesco a decodificare la vibrazione percepita in quei giorni; comprendendo il divario culturale e le divergenze di idee tra me e la mia collega italiana, ho capito che la ferita aperta nel 1947 tra quei due popoli tanto vicini, resterà insanabile, fintanto le divergenze saranno alimentate dai preconcetti religiosi di chi si arroga la “proprietà” di un Dio strattonato dalle tre grandi religioni abramitiche.
Durante i preparativi di rientro, il nostro responsabile di zona, ci aveva assegnato il compito di trasportare 3000 piccolissimi oggetti in legno d’ulivo, per recapitarli all‘Organizzazione; la mia collega presagiva scenari di sventura lungo il viaggio di ritorno; io perplesso, chiedevo al responsabile delucidazioni a riguardo. Nel caso in cui si fosse verificata una ispezione non prevista, avrei saputo cosa dire e come comportarmi. Caricati i bagagli su un furgoncino; alle 01.45 (a.m.) eravamo partiti; il nostro autista si fermò al primo check-point e in una lingua a me aliena, rispose alle domande poste dai militari; uno di questi con i nervi a fior di pelle, mi fece cenno di abbassare il finestrino; aprii e mostrai il passaporto con visto, alla domanda risposi «I go to Ben Gurion airport». A quel primo posto di blocco ne seguirono molti altri, altri militari, altre domande inquisitorie a cui io risposi con calma «we came from Jerusalem and we go to the airport, Ben Gurion airport». Fino a quando non fecero cenno di procedere. Nella notte, le strade illuminate artificialmente sembravano tutte uguali, perdo l’orientamento e mi abbandono in un sonno profondo, tanta era stata la stanchezza accumulata nei giorni precedenti. Appena mi svegliai mi accorsi che eravamo già arrivati all’aeroporto e la mia collega mi raccontò tutta l’odissea dei tanti altri posti di blocco che mi ero perso. Ad ogni modo, salutammo il nostro autista e ci immergemmo nel girone infernale dei dannati viaggiatori. Pensando di aver superato ormai la fase più critica, ci incanalammo in un percorso obbligatorio che ci avrebbe condotto verso una serie di controlli programmati per raggiungere finalmente l’aereo, ma la stanchezza e lo stress avevano congiunto i loro poteri e ci indussero a commettere un piccolo errore. Prima che gli agenti della sicurezza ci separassero, avevo detto loro che l’amica di viaggio l’avevo incontrata appena fuori l’aeroporto, lo avevo ripetuto anche in italiano per far capire alla mia collega il mio tentativo di evitare interrogatori incrociati. Al mio colloquio di sicurezza, avevo mantenuto la linea della verità omettendo qualche dettaglio, evitato alcune parole pericolose, e persino improvvisato sul momento. I miei punti di forza sono stati il mio limitato inglese e la totale assenza tecnologica nel mio bagaglio. Per i viaggiatori equipaggiati di tecnologia multimediale ma dotati di scarso savoir-faire infatti, il bagaglio è stato un vero e proprio handicap. Dopo il travagliato percorso, finalmente partimmo per l’Italia. All’aeroporto di Roma, un abbraccio tra me e la mia compagna d’ avventura confermò che era arrivato il momento dell’addio e di nuovo solo, mi accinsi a fare l’ultimo tratto di viaggio. Sai dove ho temuto di più? Non ai check-point che via via bloccavano il nostro procedere verso l’aeroporto; non al Ben Gurion, dove i controlli erano talmente meticolosi da far innervosire chiunque non abituato a difficoltà del genere, ma a Peretola, dove un agente in borghese mi pressava con le sue domande ed io non potevo fingere di non capire l’italiano, pertanto dichiarai il contenuto della valigia. Qualsiasi cosa fosse successo, avrei dovuto telefonare ad un contatto di fiducia, il quale però, non rispose nemmeno una volta. Tuttavia, ero riuscito a passare la dogana con il carico e recapitarlo alla Sezione zonale. Chi avrebbe dovuto accogliermi, mi riservò il trattamento degno di un inquisito! Come si dice quando vogliamo ringraziare senza esser riconoscenti? «Che Dio te ne renda merito!»
L’ultimo viaggio narrato è stato tra aprile e maggio 2014.