Julia Kent è una violoncellista canadese di Vancouver – ma da tempo trasferitasi a New York – attiva fin dal 1996 nei Rasputina e poi negli Antony And The Jonsons (due album con ognuno di questi 2 gruppi) che ha avviato nel 2007 un’interessante attività solista con gli album Delay (2007),
Green And Grey (2011) e Character (2013) che costituivano una trilogia di concept dedicati rispettivamente agli aeroporti , alla natura modificata dall’uomo e alla natura tout court. La Kent trattava questi temi attraverso uno stile musicale che spaziava dall’ambient, alla elettronica alla musica classica vera e propria affidandosi in ugual misura al violoncello trattato, ai sintetizzatori e ai rumori trovati. Ha composto anche varie colonne sonore per film, rappresentazioni teatrali e balletti. Il suo ultimo lavoro Asperities che come i due precedenti è stato prodotto dalla Leaf Records è uscito il 30 Ottobre e costituisce un viaggio all’interno dei suoi conflitti interiori. In questo senso il suo stile che mescola abilmente musica classica ed avanguardia contemporanea si lancia in traiettorie in grado di abbracciare l’intera gamma delle emozioni tra sperimentazione e tensione espressiva. Racchiuso fra due kammerspiel, l’iniziale Hellebore e il finale Tramontana (il primo per archi straziati e il secondo per archi dissonanti), Asperities si sviluppa come l’equivalente musicale di un flusso di coscienza dove ogni stazione rappresenta uno stato mentale alterato e rimanda a un’altra incommensurabile dimensione. Così la tenebra elettronica di Lac Des Arcs, la romantica e minacciosa The Leopard e Flag of No Country ricca di tensione appartengono a un espressivismo che si nutre tanto di estremizzazioni mentali quanto di contrasti. Canzoni incubo come Terrain, tre passi nell’industrial esoterico inframmezzato da una sonata romantica e la marziale Empty States sono esempi di ammodernamento digitale di stili musicali tipici degli anno Ottanta (ad es. Wire e 23 Skidoo). Infine con i 2 requiem di Heavy Eyes (per archi, flauto e organo ecclesiastico) e Invitation To The Voyage, la Kent delinea con delicatezza paesaggi desolati intrisi di malinconia trasmettendoci in ugual misura quel senso di fragilità e malessere che costituisce la caratteristica costante dell’album e il suo personale messaggio in bottiglia. Utilizzando appropriatamente loops di violoncello, elettronica e musica concreta, la Kent ha creato un suo stile dove tecnologia e realtà organica vivono in perfetta simbiosi e le forme sonore hanno il compito insieme di restituirci una sensazione d’imminente tragedia e di scavare all’interno di un’anima combattuta e sanguinante ma per questo assolutamente umana.
di Alfredo Cristallo