Perché Hanno Sempre Quella Faccia è il sesto disco dei Gatti Mezzi, il primo della loro produzione cantato in italiano. Ed è anche, non per un caso fortuito ma proprio per colpa mia il primo album che ascolto del gruppo. Naturalmente sapevo che i Gatti Mézzi sono un gruppo pisano (a partire dal nome che significa gatti fradici e rimanda alla frase “roba da gatti mézzi” per indicare una situazione scabrosa e negativa), sapevo che la musica del gruppo è un mix fra jazz alla Django Reinhardt, swing e cantautorato italiano desueto (Gaber, Conte, Buscaglione) e che i loro testi, sempre ironici come nella tradizione pisana e toscana, erano finora sempre stati in vernacolo. Ma non li avevo mai sentiti. Così questo primo ascolto che coincide con la prima volta che cantano in italiano mi ha dato quasi l’impressione di ascoltare un gruppo sconosciuto e nuovissimo. Ma non poi così del tutto. La struttura jazzata, swingante, stralunata a partire dall’iniziale sonata pianistica di Ci Voleva Un Divano è rimasta. E tuttavia piano piano, quasi impercettibilmente la ricerca sonora dei Gatti Mézzi si è mossa ed evoluta (il loro primo LP è di 10 anni fa) verso altre soluzioni stilistiche. Il nucleo centrale pulsante e pensante di Francesco Bottai (voce, chitarra) e Tommaso Novi (voce, piano acustico ed elettrico, minimoog, fischio) si è avventurato in alcuni casi in un lo-fi rock, quasi costruito in garage, altamente personale che sfoggia costruzioni imprevedibili e arrangiamenti sofisticati come nella sonata per carillon di Il Mare E’ Una Scusa dove le dissonanze di chitarra s’intrecciano alle dissonanze di piano e si sciolgono sulla nobile voce di Petra Magoni, nella novelty pop di I Miei Amici Non Si Sposano sovrapposta su una sublime polifonia vocale, sul numero da music-hall di Con Gli Occhi Contro I Panni di un melodismo struggente, sul sinistro e accorato requiem di Sassini. Altrove I Gatti Mézzi manipolano quelle stesse novelty ricorrendo ad arrangiamenti sudamericani, per esempio nell’andatura merengue di L’Estate Sbagliata, nella danza carioca di Io, Te E Il Bar per percussioni e sincopi di xilofono e piano jazz lounge, fino all’orgoglioso, generazionale etno-world di Non Cambieremo Mai. Insomma il disco pullula di melodie che sarebbero irresistibili in un contesto più gioviale (e tuttavia giovialissimi sono i testi) se invece la vena sotterranea non fosse dimessa e nostalgica come nella ballata struggente quasi anni Cinquanta dell’Uomo Del Momento o nelle sonate operistiche di Nora e Mario, Fino A Qui Tutto Bene che sono canzoni che sembrano esorcizzare il dolore attraverso toni romantici. Lungi dall’essere barocco, il sound del disco è arte umile ma che è capace di elevare con smaliziato mestiere la nostalgia a vette financo epiche. Il disco conta due o tre capolavori e forse una mezza dozzina di brani che farebbero la gloria di molti gruppi coevi (e non solo di Pisa) e rivelano la personalità e la statura del duo come grandi storyteller nella migliore tradizione del cantautorato italiano. Come già detto accanto al nucleo immutato di Novi e Bottai, suonano i collaboratori storici Matteo Consani (batteria) e Mirco Capecchi (contrabasso, basso elettrico). In più la già citata Petra Magoni, Andrea Ciacchini (basso, programmazioni), Piero Perelli (batteria), Simone Padovani (percussioni), Giulia Pratelli (cori) e il quartetto d’archi di Francesco Carmignani e Carlo Cervi (ambedue al violino), Asitha Fathi (viola) e Giampaolo Perigozzo (violoncello). Il disco è uscito ai primi di aprile per la Picicca Dischi.
di Alfredo Cristallo