The Comet Is Coming è uno degli ultimi gruppi lanciati in questi anni dalla Leaf Label, etichetta inglese specializzata nel promuovere gruppi musicali attivi in un area musicale dove stili come il jazz, il funk, l’afrobeat, la world music e la psichedelia cosmica s’incontrano, si scontrano, si sovrappongono in svariate composizioni e ricomposizioni armoniche. Il gruppo si forma a Londra, praticamente durante un concerto dei Soccer96 dove militano l’acrobatico batterista Betamax Killer (al secolo Maxwell Hallett) e il tastierista “cosmico” Danelogue The Conqueror (al secolo Dan Leavers) in cui interviene come ospite King Shabaka Hutchings sassofonista già attivo nei Sons Of Kemet e nei Melt Yourself Down. Dopo due settimane sull’onda dell’entusiasmo, i tre si ritrovano in studio e registrano ore di materiali sonori in appena tre giorni.
Da quel materiale registrato usciranno l’EP Prophecy registrato in edizione limitata in vinile da 12” e uscito nel Novembre 2015, i singoli Neon Baby e Do The Milky Way (sempre nel 2015), il singolo Space Carnival nei primi del 2016 e finalmente agli inizi di aprile 2016 il loro primo full lenght LP Channel The Spirits. L’album recupera tutto l’immaginario associato alla fantascienza di serie B e vi aggiunge spunti tratti dalla musica cosmica tedesca d’avanguardia degli anni Sessanta-Settanta (ad es. i Can), dal jazz funk pionieristico di Sun
Ra e dal free jazz di Pharoah Sanders per confezionare un prodotto eccellente e suggestivo. Fin dalla introduttiva The Prophecy uno space rock alla Klaus Schulze, l’ascoltatore viene trascinato in una sorta di quarta dimensione dove i paradigmi strumentali dominanti sono gli interventi ispidi e assassini al sax di Shabaka, le batterie tribali e le atmosfere sintetiche delle tastiere in perenne ondeggiamento fra elettronica, dub e musica da dancefloor. Il primo biglietto da visita è il funk orgiastico di Space Carnival squarciato da interventi di sax, basso crepitante e organo in sottofondo dopodichè il trio prende la via del be bop deviato con brani come Journey Through The Asteroid Belt e New Age (con l’intro cosmico di Hand) laddove partendo da un tappeto di accordi di sax lisergico e batteria evanescente, l’astronave fa rotta verso un felice pianeta dove tutti ascoltano musica jungle. Questa prassi musicale basata sulla sovrapposizione degli strumenti su singoli stili musicali allo scopo di aumentarne il potenziale energetico, trova peraltro altre vie espressive nei ritmi dub ed hip hop su note di sax tenebroso di Slam Dunk In A Black Hole, sulla novelty jazz funk di Cosmic Dust che si spinge furiosamente oltre i confini del free-jazz e si disperde in una nuvola sintetica e in Star Furnace, afrobeat rutilante che timidi cinguettii di sax trasformano quasi per caso in un tema classicheggiante. La band riesce addirittura a ragionare su sé stessa e sulle proprie radici musicali (il jazz come musica per ballare, il jazz come stile suonato da gruppi e non da singoli musicisti) nelle escursioni strumentali collettive di jazz schizoide su ritmi decostruiti e animaleschi (la title-track) o su ritmi androidi (Deep Within The Engine Deck) prima di partire per il viaggio finale verso lo spazio profondo preannunciato dalle radiazioni sonore delle conclusive Light Years, un om scagliato fra echi e riverberi elettronici, e End Of Earth il buco nero in cui affonda tutto l’universo musicale del gruppo. Channel The Spirit è un album-saga (nella stessa misura in cui lo sono state le saghe dei Gong e degli Hawkwind per non parlare dell’intera opera di Sun Ra) in cui tutta la frenetica energia e tutto il potenziale creativo del gruppo viene messo al servizio di un’utopia narrativa dove il viaggio mentale prodotto dallo scorrere delle suggestioni musicali diventa quasi in maniera subliminale la possibilità ipotetica di una fuga dalla realtà che ci circonda.
di Alfredo Cristallo