Gli Ant Lion (ovvero il formicaleone) sono quel che una volta si sarebbe chiamato un supergruppo. Si sono formati infatti nel 2016 con una formazione eterogenea, per età e influenze musicali comprendente Stefano Santoni (basso), già produttore e chitarrista dei Kiddicar e soprattutto degli ormai defunti Sycamore Age, Isobel Blank (voce), Simone Lanari (chitarra) già nei Walden Waltz 8anche come produttore) e Alberto Tirabosco (batteria) il più giovane del gruppo, già attivo in varie band hardcore. Gli altri strumenti usati sono suonati a turno dai vari membri del gruppo, a conferma di un’ecletticità che tracima dal semplice ambito tecnico per permeare l’intero spettro compositivo del loro primo album, intitolato A Common Day Was Born e uscito il 17 marzo 2017 per la Ibexhouse/Audioglobe.
L’album è una gradita sorpresa poiché si libra al di sopra dell’attuale scena discografica italiana, riscoprendo il gusto dell’improvvisazione e della sperimentazione fra generi (jazz, punk, no-wave, avantgarde, progressive) spesso seguendone lo sviluppo tematico. Per quanto la loro musica sia accostabile alla no-wave newyorkese di fine anni Settanta – inizi anni Ottanta, in realtà le capacità tecniche e compositive del gruppo (che ricordiamoci vanta due ex produttori) sono molto più ampie e stratificate e sono capaci di abbracciare oltre tre decenni di musica d’avanguardia. Se dalla no-wave viene ripreso il gusto per l’atonalità e la decostruzione sistematica della forma canzone come nell’iniziale No Belly che propone un progressione tempestosa, propulsa da un basso granitico e da uno xilofono petulante e messa in orbita da un groove demoniaco che la trasforma in un esempio di free-jazz, è altrettanto vero che il gruppo riesce agilmente a liberarsi rapidamente dal senso di nevrosi e di angoscia rintracciabile ancora in Hypno Hippo (praticamente un power rock su tempo dispari in perenne attesa di qualcosa che sta per succedere) per avventurarsi nel mare magnum di un virtuosismo che cita liberamente il jazz progressive sghembo e violento dei King Crimson del periodo 1973-75 (quello fra Lark’s Tongues In Aspic e Red), il chitarrismo cervellotico e il cabarettismo degli Henry Cow, le cacofonie ritmiche e il senso dell’improvvisazione collettiva dei Muffins, le architetture magniloquenti e iperconcettuali dei Djam Karet. Su queste piattaforme, il gruppo si lancia in mini-jam (raramente i pezzi superano i 3 minuti) che potrebbero sembrare anche semplicemente degli incipit di canzoni suscettibili di avere anche uno svolgimento più lungo se non fosse che il gruppo sembra capace ovunque di comprimere temi, stili e idee diverse in uno spazio finito (e ristretto) dicendo tutto quello che c’è da dire, senza tralasciare fuori nulla. Le vette di questa fantastica carrellata sono il lied espressionista di Last Day Of Night, nobilitato dagli esperimenti vocali della Blank, annegato in dense volute di organo che si evolve in un prog poliritmico per chitarra e marimba (ognuno apparentemente, ma solo apparentemente, interessato a seguire una propria armonia), i jazz rock sincopati e vibranti di The Head Upstairs e Ashtrays’ Anarchy, l’avventuroso deliquio disgregato per voce e basso di Spring Doesn’t Fail, il talkin’ blues di Stay Dog, Still God (con tanto di imitazione vocale di P.J. Harvey) reso macabro dagli archi di sottofondo contrappuntati da uno xilofono. Con questi impressionanti numeri già nel bagaglio, la band si concede dei momenti di relax e divertissement nella sarabanda reggae alla Police di Nap e nella fanfara caraibica di Keep Your Enemies Closer (ancora capace di sfoggiare dissonanze chitarristiche degne di Arto Lindsay) e un tocco di routine nel martellante jazz rock di Two Needles. Tutti gli strumentisti sono eccezionali (se non altro per la capacità di suonare più strumenti), ma a rubare la scena sono il basso granitico e implacabile di Santoni (usa spesso il basso col distorsore) e la voce di Isobel Blank contesa fra il decadentismo vizioso di Lydia Lunch e i melismi underground di Linder Sterling (la cantante dei Ludus gruppo prog-underground di Manchester dei primi anni Ottanta). Gli Ant Lion hanno confezionato (praticamente quasi dal nulla) un vocabolario musicale tanto sofisticato quanto espressivamente libero e senza confini. A un passo dalla rivoluzione.
di Alfredo Cristallo