– Il tuo curriculum vitae come musicista e compositore è lungo e vario: durante la tua carriera, hai fatto parte di vari gruppi, hai collaborato con altri gruppi, fai parte di un gruppo(Le Luci Della Centrale Elettrica), hai composto colonne sonore, sonorizzato lavoro per cinema, teatro, danza e arti visive, hai finalmente fatto un tuo disco solista. Ognuna di queste esperienze fa parte di un momento della tua vita professionale o è stata scelta seguendo i gusti o le opportunità del momento ?
Credo che la musica viva proprio di occasioni e negli anni ne colte tante, nate soprattutto dall’incontro con le decine di musicisti, band e progetti con cui ho collaborato. Dedicandomi poi alla sonorizzazione ho conosciuto registi, artisti, coreografi e drammaturghi che mi hanno fatto scoprire nuove direzioni ed applicazioni e così ho intrapreso un percorso individuale di composizione di cui Solum è una prima tappa. Tutti i miei percorsi (musicali e non) si sono sempre sovrapposti ed alternati e – per quanto possa essere ricco il mio CV – cerco
continuamente di essere all’opera con qualcosa di nuovo.
– Come ho già scritto nella recensione (pubblicata su Micsugliando il 30 Giugno 2017 sez. GEMME OSCURE) i tuoi brani si sviluppano come frammenti autonomi che sembrano preparare o preludere quello successivo. Queste tecniche compositive (che mi ricordano tanto i King Crimson quante le tecniche di collage dei Soft Machine) sono state pensate aprioristicamente o si sono sviluppate in maniera diciamo naturale durante le sessioni di registrazione ?
Solum ha avuto una gestazione lunga quasi quattro anni ed ha seguito un processo molto stratificato, svolto su un piano empirico più che concettuale. Non ho studiato composizione ma questo lavoro mi ha premesso di mettere a fuoco un mio metodo, basato essenzialmente sullo sviluppo di frammenti spesso nati dall’improvvisazione, che ho poi accostato ad altri elementi analoghi per creare i vari episodi. L’arrangiamento invece – soprattutto per la parte ritmica – è stato un lavoro fatto di esperimenti, scarti, aggiunte e tentativi e sì, anche le stesse sessioni di registrazione dei temi di violoncello hanno fornito spunti poi divenuti strutturali.
Ho imparato molto da questo lungo percorso e in futuro ho intenzione di accorciare i tempi di registrazione e produzione per privilegiare l’immediatezza. Ma comporre resta un lavoro per cui amo prendermi tutto il tempo necessario, oltre al piacere che ne deriva. Riguardo ai King Crimson: sì li amo molto! Red è un disco fondamentale per me e John Wetton è uno dei miei musicisti di riferimento. Anche Wyatt, Greaves e soci occupano un posto d’onore tra i miei ascolti.
– Anche se è evidente l’uso del computer programming, i tuoi strumenti principali o comunque quelle che indubbiamente conducono l’armonia di base sono il violoncello e il basso (elettrico e contrabbasso). Le tecniche di computer programming sono quindi
ancelle di questi strumenti principali o le intendi come complementari nella produzione del suono e della melodia ?
In Solum il programming svolge il ruolo fondamentale di creare dei mondi sonori attorno alle melodie. Computer, campionatore e looper sono in pratica lo spartito su cui è stato scritto l’album, perché quasi sempre compongo registrando i miei strumenti e sovrapponendoli oppure campiono rumori da mettere in sequenza. Ho un forte interesse per le tecnologie applicate al suono, anche per esigenze professionali (sono pure un tecnico del suono) e, sebbene ultimamente la pratica strumentale e performativa catturi più la mia attenzione, la tecnologia resta lo strumento che rende possibile il tutto.
– Stilisticamente le tue composizioni si differenziano sensibilmente l’una dall’altra. Si può ravvisare facilmente la composizione classicheggiante e romantica, come anche le incursioni nel folk rock occidentale, nella musica sacra mediorientale, nel post- rock come nel minimalismo e addirittura nel trip – hop e nel dark punk. Al netto dell’ovvia libertà espressiva dell’artista, qual è il genere a te più consono o quello a cui ti senti più vicino in questo momento ?
Ho avuto la fortuna di crescere in ambienti musicalmente molto aperti, a volte persino divaricati, e questo mi ha portato a sviluppare un interesse generale per la musica, a prescindere dai generi. Dunque ne ascolto tanta e sono sempre curioso di conoscerne di nuova, anche se poi non mi piace. Riconosco le affinità con tutti i generi da te citati e potrei citarne altri. Ma sebbene consideri molto importante per un musicista conoscere i generi e la loro prassi, la mia composizione cerca una sua personalità, perché più che certi generi o stili mi attraggono alcuni aspetti della musica: la complessità (nascosta o manifesta), l’intensità e l’energia dell’interpretazione, talvolta l’ironia e anche la sensualità. Soprattuttuo mi piace la musica che sia frutto d’ingegno o d’istinto e non di calcolo.
– I tuoi brani riecheggiano sia le scale della tradizione musicale occidentale che le
scale della tradizione orientale. Quale di queste due hai trovato più “maneggiabile” nel
processo di composizione ?
Come gran parte gli occidentali ho ricevuto l’inesorabile inprinting del sistema tonale occidentale e del temperamento equabile, il che non è poco ma di certo non è tutto. Fortunatamente col tempo ci si può immergere in altri sistemi ed apprendere soluzioni che altre culture considerano a loro volta “naturali”. Dato che la mia musica è fatta principalmente di ritmo e melodia (tratti comuni a quasi tutte le culture del pianeta) cerco di studiare questi punti d’incontro sul piano musicale, oltre che culturale, senza poi farne necessariamente un uso compositivo. Nel nuovo materiale a cui sto lavorando sarà più evidente questa ricerca, perché sto concentrando la mia attenzione sulla comprensione di sistemi musicali come quello tradizionale indiano. Ma sono contrario all’approccio “etnico”(o “world music”), ovvero quella branca del pop che fa uso di elementi esotici per rendere più pittoresco un prodotto da vendere. Personalmente cerco di non appropriarmi di nulla se non lo conosco abbastanza da rispettarne le origini ed accettarne le differenze. In altre parole: un conto è assorbire, un altro è saccheggiare!
– Nel complesso tutta la tua musica in Solum descrive sensazioni dell’anima ma in maniera lieve, meditata, quasi subliminale (mi ricordano ad es. i lavori di Joep Beeving). L’hai pensata proprio così durante il lavoro di registrazione o fa parte del tuo stile ?
Scegliere la forma strumentale per la propria musica significa operare su un livello di astrazione in cui tutti ci capiamo a vicenda attraverso qualcosa di non verbale, come nell’arte astratta. Si lavora per suggestioni, analogie, fratture e talvolta cliché che siano in grado di suggerire altro. Si può ad esempio evocare un paesaggio ma sarà sempre l’ascoltatore a decidere di quale luogo si tratti, come appaia e quali stati d’animo esso provochi. Questo accomuna la musica sinfonica alle composizioni di Boulez, Mingus o Charlie Haden, fino ai Don Caballero o Amon Tobin. Si tratta secondo me del piano in cui la musica trova la sua massima potenza evocativa e, per ciò mi riguarda, è frutto di ricerca ed allenamento della mia stessa immaginazione.
– Ben 5 pezzi del tuo album (quindi la metà) facevano già parte di tuoi precedenti
lavori. Le versioni in Solum sono uguali o differenti da quelle originali ?
È vero. Quattro pezzi fanno parte di Shestaya, il mio primo progetto solista in cui sonorizzo dal vivo alcuni film muti del regista sovietico Dziga Vertov. Un altro è nato come parte della colonna sonora originale di Progetto Hebi, film del 2014 di Alessandro Capuzzi ed Emanuele Dainotti. Deriva invece fa parte in origine delle musiche di Rattigan Glumphoboo, lavoro teatrale di Caterina Poggesi a cui ho lavorato per alcuni anni. Tuttavia, quando ho iniziato a lavorare all’ album, ho riaperto quei brani da capo per crearne delle nuove versioni. Così Riot Song, Hebi e Sider suonano abbastanza simili alla prima versione, mentre Repetita e Deriva sono cambiate molto, soprattutto per quanto riguarda il ruolo del violoncello.
di Alfredo Cristallo