I Fiori di Hiroshima sono un gruppo della provincia di Pisa (provengono da Pontedera) formatosi nel 2013 su impulso di Elia Vitarelli (voce, chitarra, tastiere) e Jacopo Priami (batteria). A questo primo nucleo si aggiungono Giovanni Giuntini (basso), Daniele Lapi (chitarra) e Alessandra Martinelli (tastiere). Il quintetto inizia subito a comporre canzoni originali che combinano sonorità a metà fra il dark elettro-acustico e la psichedelia. Il primo lavoro esce nel 2013, s’intitola Germogli ed è un EP di 6 pezzi. A questo primo lavoro segue un secondo EP di 5 pezzi, intitolato Nabuk, uscito nel gennaio del 2016 e prodotto dalla Phonarchia Dischi: la formazione è cambiata (Giuntini è stato sostituito da Alberto Volpi Ramos, la Martinelli se ne è andata) ma non la musica che ha anzi acquistato maggiore compattezza. Ridotti a trio dopo l’uscita del secondo chitarrista Lapi, la band è entrata in sala di registrazione per realizzare il loro primo full lenght LP che è uscito sempre per la Phonarchia il 3 Novembre 2017 col titolo di Horror Reality. Di fatto il programma originale non è mutato semmai si è accentuato il senso di nevrosi e di depressione acuta che dà vita a un dark psichedelico arricchito da venature melodiche, da continui saliscendi emotivi (per aumentare il senso di oppressione mentale) ma anche di sventagliate hard rock che coniugano l’esistenzialismo febbrile dei Fugazi e la cupa disperazione dei gruppi dark degli anni Ottanta. Non a caso i loro brani rimandano alla desolata inedia e allo spleen generazionale al fine di costruire canzoni dalla struttura convenzionale ma che rimangono sospese fra atmosfere morbose e parossistiche accelerazioni nevrotiche. Il tetro rosario si apre col dark blues cadenzato di Alibi che somma le sventagliate feroci e lisergiche dei Chrome alle angosce allucinate dei Suicide, prosegue con due maestosi rap metal alla Bad Brains (Identità e la title track) per attestarsi a uno standard compositivo che ondeggia fra incubi dark tanto cubisti nell’arrangiamento quanto claustrofobici nello sviluppo melodico (Eyephone, Big Mac ) e nenie notturne e fataliste (La Terra Dei Mostri) talora agghindate con un cambio di ritmo, da un assolo veemente, da un trucco elettronico che ne fanno dei reperti lirici e struggenti (Il Mare che prende a prestito qualche ideuzza perfino dal Bowie di Low, Output). Alla fine l’unico brano a discostarsi dal tono generale dell’opera è Rock (Baby Is Gone) che è in realtà un innocuo power pop a metà fra Blur e Fugazi. Un discorso a parte meritano i testi tutti in italiano capaci di descrivere in forma di favola per bambini un quotidiano che ristagna nell’indifferenza e che si nutre di consumismo e tecnologia pervasiva e di cui non sa fare a meno; mutatis mutandis è lo stesso horror e le stesse convulsioni psicologiche che produsse i testi disperati di David Thomas (il cantante degli immensi Pere Ubu). Il disco ha la produzione artistica di Nicola Baronti che dà una mano per la parte elettronica. Fa anche capolino in qualche pezzo il chitarrista Daniele Lapi qui nelle vesti di solo ospite.
di Alfredo Cristallo