La mostra, da poco conclusasi, si è tenuta dal 27 ottobre 2018 al 25 febbraio 2019 presso la Fondazione Ferrero di Alba. Una iniziativa mastodontica se si tiene conto che è stata ensata per essere ad ingresso gratuito. Proveniente dalla Collezione del “Museo
Boijmans Van Beuningen”, è stata immaginata e curata dal professor Marco Vallora secondo una logica espositiva che riflette le suggestioni surrealiste, sia nel modo di presentare le opere che di concepire un’arte non più soltanto museale e assopita.
Una mostra complessa, che racconta il grande periodo di fermento artistico sviluppato in
Europa negli Anni Venti attraverso quadri, ma anche con una serie di documenti teorici,
manifesti, testi provocatori e contributi sonori e cinematografici. Con un coinvolgimento che
vuole andare oltre il pubblico di appassionati d’arte.
Una decina le sezioni, dai titoli avvincenti, che la compongono, come:
Il grado zero dell’arte Dada;
Il Sogno;
Eros, amour fou, trasgressione erotica;
L’inconscio, il doppio, il perturbante;
Arte e natura, la reinvenzione dell’uomo;
Sade, Freud, Marx, muse inquietanti del vivere surreale;
Esiste un’architettura surrealista?
e così via… s’inseguono, in una sorta di corridoio-fantasma dell’immaginario fantastico
d’avanguardia, opere di grandissimo livello ed impatto.
L’intera mostra è un percorso storico e cronologico, ma anche dell’intelletto dello spettatore
che si addentra alla scoperta delle opere e alla ricerca di significati nascosti.
I lavori dialogano tra loro, in sintonia o contrappunto, e seguono una progressione
prevalentemente tematica con attenzione alla diacronia degli eventi. Rispecchiando alcune
problematiche e alcuni temi che concorrono a distinguere la poetica nichilista del Dadaismo
da quella più propositiva del Surrealismo: il caso, il brutto estetico, il sogno, l’inconscio, il
rapporto con l’antico, il legame tra arte e ideologia.
Per chi ama l’arte e predilige le sorprese raffinate, il museo Boijmans Van Beuningen di
Rotterdam è una perla di museo collezionistico che affianca disegni di Dürer, stampe di Goya, raccolte di vetri preziosi e oggetti di design a rare opere italiane, gotiche, rinascimentali, settecentesche: da Beato Angelico a Jacopo del Sellaio, da Butinone a Francia, da Veronese e Tiziano, a Guardi e Piranesi.
Ma anche maestri fiamminghi del valore di Van Eyck o Rembrandt, Bosch e Brueghel, Rubens e Van Dyck, la scuola dell’Aja, con Van Gogh e Toorop, e poi francesi, da Fragonard e Boucher a Monet, Degas, Cézanne, e ancora Picasso, Mondrian e Rothko, senza contare i contemporanei, da Nauman a Cattelan.
Assai importante la collezione di artisti dell’area delle avanguardie storiche, non soltanto
cubisti e costruttivisti olandesi, ma soprattutto dadaisti e surrealisti, molti provenienti dalla
selettiva collezione di Edward James (1907-1984), stravagante mecenate-collezionista, poeta
e viaggiatore, che si divise tra la passione di Magritte e Dalí, diventando di quest’ultimo
eccentrico mercante. “La reproduction interdite” (1937), suo celebre ritratto sdoppiato allo
specchio, firmato da René Magritte, che si augurava potesse diventare suo mercante
cosmopolita. Sono molti, dunque, i capolavori che, avendo avuto finora una circolazione
limitatissima, varcano oggi le frontiere
A differenza delle precedenti rassegne della Fondazione Ferrero, questa mostra non si avvale
soltanto di opere scenografiche come il trittico di grandi dimensioni (Paesaggio con fanciulla
che salta la corda, 1936), o la bocca-divano di Mae West (conosciuta anche in repliche di
design, ma qui presente in un singolare originale vintage d’epoca) di Salvador Dalí, o ancora le inquietanti, ma suggestive tele misteriose di Magritte, ma anche di documenti rarissimi,
provenienti dai caveaux insondati della biblioteca del Museo.
Breton, come è noto, è stato l’inflessibile Pontefice autoritario del movimento surrealista, che
a varie epoche, ha scomunicato i suoi pupilli e colleghi, da De Chirico a Cocteau, da Bataille ad Aragon, da Dalí a Queneau.
Molti dei documenti provengono dalla sua stessa biblioteca, andata clamorosamente all’asta
qualche anno fa. Talvolta ancora con le buste di invio, dediche o sottolineature d’autore.
Fotografie, dunque, calendari, cartoline, volumi illustrati, riviste storiche con copertine di
grande impatto grafico, firmate da artisti come Duchamp, Masson, Picasso, Ernst, ad esempio per l’originalissima rivista «Minotaure». A cui collaborano anche, con testi anticipatori e profetici, pensatori come Bataille, Lacan, l’etnologo e critico d’arte Michel Leiris, lo studioso dell’immaginario e del sogno Roger Caillois, politici come Naville, storici del cinema come Sadoul. In questo contesto, uno degli elementi più spettacolari in mostra sarà infatti la presenza di spezzoni o fotogrammi di film sperimentali ed anticipatori, di firme come Desnos, Dulac, Buñuel, René Clair, Eggeling, Richter. Senza dimenticare il fatto che Dalí realizzò delle sequenze esplicitamente richiestegli da Alfred Hitchcock e da Walt Disney.
Il titolo, che mette in gioco la parola-shock del “Nulla”, in realtà deve non solo stupire e
intrigare, ma anche rispettare una delle convinzioni più radicali del Dadaismo. Che non
soltanto punta tutto sul Caso e sul rifiuto dell’artista onnipotente e padrone della propria
opera, ma si assoggetta alle leggi dell’azzardo e del gioco, e vuole in particolare perorare la
causa della negazione dell’arte, il rifiuto del Bello museale, con i ready-made, il diniego
dell’arte decorativa e rassicurante. L’opera d’arte, che quasi non è più opera e non è più
nemmeno artistica, deve proporre inquietudini, malesseri e soprattutto interrogativi.
Dopo un tunnel introduttivo che accoglie e protegge i visitatori all’entrata (e che deve
simulare una sorta di viaggio dentro il corpo umano e i meandri dell’inconscio, ma essere
anche, non soltanto per i bambini, un treno-fantasma, in uno di quei luna park così cari agli
artisti d’avanguardia, con luci, pubblicità, affiches, graffiti e fotografie di ricercati dalla
giustizia, opera di Duchamp), ecco le opere dadaiste, che aprono la mostra. Sono quelle di Man Ray, fotografo alla moda e di moda, che spesso collabora a due mani con Duchamp.
Collages astratti di Schwitters e sculture di Arp, oppure teleri bislacchi e provocatori del
dandy spagnolo pariginizzato Picabia. Tele dai titoli spiazzanti come Vieni con me laggiù,
Egoismo o Radio concerts. Che non sono belle in sé o ruffiane, come altre opere classiche e
persino delle avanguardie, ma son giochi sfrontati con l’immaginario, esercizi di non-pittura e
di anti-arte, e quindi in questo senso non vanno spiegate, ma vanno inquadrate in un contesto
di rifiuto, sovversione e anarchia. Perché non si può dimenticare che Dadaismo e Surrealismo, pur diversi nei loro assunti, hanno matrici e influenze comuni, che vanno dalle idee politiche di Sade e Marx, a poeti come Rimbaud, Mallarmé, Poe, e il folle antagonista di Proust, Raymond Roussel, dandy, omosessuale, drogato anche di medicine, che muore, forse suicida, a Palermo, come evocato da un bel racconto-indagine di Leonardo Sciascia.
Convinto di poter diventare famoso almeno quanto Verne, scrivendo folli pièces teatrali in
rime arzigogolatissime, e romanzi-rebus, dalle chiavi cifrate, amatissimo da Perec e dal
Nouveau Roman, da Duchamp e Giulio Paolini. In mostra disegni preparatori e una tela
spettacolare di Dalí, ispirata al libro di Roussel Nuove impressioni d’Africa. Altra opera assai
significativa è invece il ritratto immaginario di Lautréamont di Man Ray. Immaginario, perché
l’autore ottocentesco degli Chants de Maldoror, illustrati sia da Dalí che da Magritte, è un personaggio misterioso, che non si sa se sia nato a Montevideo, con il nome nobiliare di
Isidore Ducasse, se sia realmente esistito, se non si tratti di un autore più celebre, sotto
mentite spoglie. Infatti, sotto un mollettone da stiro (impacchettato come se fosse già
un’opera di Christo), telone da inaugurazione di monumento, che non permette di capire
quale personaggio sia omaggiato al di sotto, Man Ray ha occultato in realtà una macchina da cucire Singer (forse in onore a Winnaretta Singer, grande mecenate del movimento e dei film in mostra). Certo in ossequio a una ormai celebre affermazione di Lautréamont: «Bello comel’incontro fortuito di una macchina da cucire e un ombrello, su un tavolo da
dissezione».Mentre di Marcel Duchamp, grazie ai prestiti del Boijmans, c’è la possibilità assai rara di poter esporre insieme tre diverse Boîtes (La boîte verte, La boîte-en-valise, À l’infinitif) in cui a partire dagli anni Trenta Duchamp, che ha smesso di fare l’artista, ed è
apparentemente diventato soltanto scacchista, rinchiude scandalosamente tutta la propria
opera omnia, con l’intenzione polemica e sarcastica di distruggere l’idea dell’artista genio,
sostituendo alla sede pomposa del Museo una semplice valigetta, pronta a seguire il suo
nomadismo costituzionale e la sua caustica ironia corrosiva.Nella sezione della mostra che si riferisce al Sogno c’è una sorta di ripartenza, dopo l’azzeramento e il rifiuto radicale dell’arte da parte dei dadaisti. Per questo la parola Sogno (che soprattutto con Dalí diventa anche incubo, privato e storico, dal momento che l’artista spagnolo, a differenza di Picasso e degli altri personaggi legati al partito e all’ideologia comunista, è assai compromesso con la
dittatura franchista) significa libertà, levità aerea, ma anche introspezione e penetrazione
nell’inconscio. Tutto questo si riflette nei quadri subacquei di Tanguy, nelle invenzioni
visionarie di Brauner, nelle bambole sadomasochiste di Bellmer, nelle fotografie di Claude
Cahun, nelle scatole delle ombre d’un poeta-artigiano liricissimo, come Joseph Cornell. Ma non è tutto.
La maggior parte delle opere è stata esposta in Italia per la prima volta in assoluto. La mostra chiude i battenti dopo essere stata visitata da ben 115.000 persone. Un bel successo.
di Melania Barberis