HIBOU MOYEN Lumen

 

Avevamo lasciato Hibou Moyen (al secolo Giacomo Radi; il nome significa Gufo Comune) nella
seconda metà del 2016 quando uscì il suo secondo album Fin Dove Non Si Tocca (che abbiamo
recensito il 28 novembre del 2016). Lo ritroviamo in quest’inizio di primavera con il suo nuovo
album, il terzo della sua carriera (il primo era stato Inverni del 2014) che è uscito il 21 febbraio
2020 col titolo di Lumen per la label Private Stanze che aveva prodotto già i suoi primi dischi. Il
nuovo disco è una collezione di emozioni sminuite, che si colloca in immagini sfocate al confine tra
folk, blues, soul e jazz lounge. Quello di Hibou Moyen è sostanzialmente un lo-fi rock altamente
drammatico, fabbricato in garage e sostenuto dal suo canto sofferto e fatale (come in Uragano
arricchito da tocchi di organo Wurlitzer). Tra dissonanze e melodie gentili, ritornelli sussurrati e
fratture nette, gli arrangiamenti di Hibou Moyen creano immagini armoniose della quotidianità
che condividono un po’ della malinconia di Nick Drake e dell’austera complessità strumentale di
John Martyn. Tutti i brani sono registrati in maniera umile ma sfoggiano costruzioni imprevedibili e
altamente sofisticati. La scaletta dei brani è sistematicamente altalenante fra un pow wow
marziale con piano jazz da cocktail lounge (Gli Scheletri Delle Comete), ballate pianistiche alla Billy
Joel (Bambina Vipera, il lied di L’Eruzione cantato con toni mantrici), prog rock alla Goblin
(Serotonina), folk pop con toni distesi e nostalgici (Ogni Buio, Avaria) o funerei (Martha). Le vette
dell’arte di quest’artista sempre impegnato a trovare un bagliore di luce in panorami altrimenti
devastati dalla malinconia e dalle ombre della depressione, in cui i trucchi degli arrangiamenti si
rarefanno fino a lasciare soltanto una cartilagine astratta di accordi che la voce si occupa di
raccordare con smaliziato mestiere sono la ballata pop stralunata di Era Inverno arrangiato per
Wurlitzer, carillon di pianoforte e archi, l’acquerello campestre di Ruggine Dei Campi arrangiato
per Wurlitzer, piano lounge e mellotron e infine la ballata notturna alla Neil Young per piano archi
e tocchi sommessi di basso di La Preghiera Dei Lupi che conclude l’album. Lungi dall’essere
barocco il sound di Hibou Moyen è la quintessenza del rock cantautorale. Sono infatti le chitarre,
le tastiere (con l’onnipresente Wurlitzer) e gli archi ad elevare i suoi tetri lamenti in tenui romanze
a cui il marasma degli strumenti conferisce un tono epico mentre la voce rimane sempre dimessa e
indifferente, mai esibizionista e trionfale: sono canzoni che sembrano esorcizzare il dolore mentre
Hibou Moyen si strugge di trovare un senso alla vita.

La sensazione complessiva è quella di assistere talvolta a un requiem accorato e talaltra a una sfrenata confessione di disperazione e inutilità. Nessuno come Hibou Moyen sa trasformare in musiche emotivamente immediate delle meditazioni solenni sulla condizione umane impiegando una personalissima esuberante ed
eterodossa versione di psichedelia. Accanto a Hibou Moyen (voce, chitarre, basso, synth), suonano
Nico Pistolesi (tastiere), Giuliano Franchi (chitarra elettrica) Stefano Giuggioli (batteria,
percussioni), Davide Canalini (basso), Nicola Nieddu (violino, viola) e Antonio Cortesi (violoncello).
Gli arrangiamenti sono di Hibou Moyen e Pistolesi e la produzione sempre di Hibou Moyen e
Andrea Scardovi.

di Alfredo Cristallo

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