Tempesta Divina

La parola ‘Kamikaze’ ha origine da due termini giapponesi: ‘kami’ che significa ‘dio’ e ‘kaze’ che significa ‘vento, tempesta’. Con ‘tempesta divina’ si chiamavano gli uragani che nel XIII secolo distrussero le flotte navali mongole che erano in procinto di invadere il Giappone.

Comunemente l’espressione viene associata a quelle persone che compiono azioni che implicano un sacrificio estremo. I primi kamikaze della storia furono impiegati dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale.

Il credo dei kamikaze era influenzato dal ‘Bushido’, il codice di condotta del guerriero giapponese basato sullo spiritualismo proprio del buddismo che enfatizza il coraggio e la coscienza dell’uomo. I kamikaze ritenevano che la missione d’attacco non fosse un gesto straordinario ma solamente una parte del loro dovere: il loro patriottismo nasceva dalla convinzione che la nazione, la società e persino l’universo si identificavano nell’Imperatore e per questo motivo erano disposti a sacrificare la loro vita.

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Le nuvole facevano presagire niente di più che una burrasca passeggera, com’era già successo nelle precedenti stagioni estive, ma il preludio di cupi sospetti calarono improvvisamente sulla valle, e avvolto nelle tenebre mi trovai a fronteggiare la tempesta. I fulmini danzanti tra le vette, abbagliavano le valli sconquassate da raffiche di pioggia orizzontale. Gli alberi sembravano chiedere pietà da tanto che le loro chiome erano strappate via dai venti furiosi. Il fiume Oglio turbinante s’ingrossò fino a divorare le sponde. E i boati fragorosi dei tuoni, come ruggiti di tigri facevano gelare il sangue nelle vene.

L’aria si caricò di energia elettrica, ed io, pervaso da forze inebrianti ero pronto al sacrificio estremo, avrei potuto affrontare le acque travolgenti del fiume o l’immane mole dei monti spezzati ai fianchi, ma il divino che legifera ed esegue attraverso la Natura fu clemente, e il giorno successivo, mi rese testimone di come l’uomo era minuscolo ed impotente di fronte ad eventi così improvvisi e catastrofici. Dal punto in cui mi trovavo, vidi oltre il fiume, il fianco verde della montagna rigato da copiose lacrime marroni. Più a valle, i torrenti Re e Cobello esondati portarono in due paesi, fango, detriti e morte.

Ma la Tempesta non colpì soltanto la Valcamonica, anche la vicina Valtellina fu coinvolta nel tragico destino.

Dalle pendici del Mortirolo non riuscii a vedere molto. Mi sorprese il fatto che il fiume Adda sembrava ridotto a dei rigagnoli torbidi, nonostante tutta quella pioggia caduta nei giorni scorsi. Seppi successivamente che il fianco del monte Zandila, messo a nudo come un dente cariato, sovrastava un tratto di valle piagato dalle tonnellate di roccia e terra collassati sul fiume, così che tutte le acque, furono ben presto accolte da un bacino idrico di recente formazione. I valligiani temettero che un nuovo rilascio di materiali dal monte, portasse via tutto come fece l’onda anomala del Vajont. Il pericolo e la paura furono scongiurati con opere ingegneristiche, e sembrò tutto finito.

Rimasi bloccato tra le due valli e in attesa di una via liberata da auto accartocciate, massi e tronchi nel fango, di nuovo, mi sedetti sul dorso del Mortirolo a guardare e a tener memoria.

Tutta verde, in quei giorni era la nostra valle

e l’Adda sorrideva, rispecchiando le rive fiorite.

Il fango di una notte di temporale

L’ha completamente sommersa con la sua ondata.

Della sua luce azzurrina, dei suoi fiori,

delle sue sponde non resta nel ricordo

se non quello sconfinato mare torbido di un unico colore:

il colore della terra e della morte…

(da “La campana di San Martino” – “La Tèra Perdùda” di Remo Bracchi – Originale in dialetto di S. Antonio Morignone)

(***)

A distanza di 30 anni, ritornai in Valcamonica per immergermi nei paesaggi come li ricordavo da giovane, ma una volta là, dov’erano torrenti guizzanti tra le rocce muschiose, incontrai delle acque grigie senza vitalità, incanalate in alvei lastricati di pietra e cemento.

Gli uomini della valle riposero le speranze nella preghiera e nella tecnica moderna della cementificazione come unici metodi preventivi alle catastrofi naturali.

Le tragedie del 1987, non sono state di alcun monito per il futuro, tant’è che oggi la “Tempesta Divina” infuria ancora.

 

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