Già conosciuta presso questa rubrica con il nome di Verdiana Raw (nel 2016 avevamo recensito il suo LP Whales Know The Route), Verdiana Maria Dolce musicista, poetessa e performer ritorna col suo vero nome e un suo nuovo progetto intitolato Medicina Nera e pubblicato il 15 novembre 2020 per la ArtINGENIO. L’album è quello che si chiamerebbe un progetto interdisciplinare: si
tratta di una serie di poesie ermetiche e crepuscolari che intrecciano corde emotive, vite vissute all’interno di un mondo disincantato dove la carne e l’anima sono elementi essenziali di un progetto musicato dalla stessa Verdiana e da Piercarlo Giachetti. L’arte di Verdiana si pone all’incrocio fra tragedia greca, teatro espressionista e seduta psicanalitica occupate da voci ridotte
a bisbiglio come se fossero disseccate dalle emozioni e da un’elettronica dissonante e spesso opprimente. Gli arrangiamenti suggestivi (quasi privi di percussioni, con frequenti rimandi all’avanguardia minimale) e il fantasma della voce di Verdiana che si aggira senza pace nei meandri di una mente devastata, affrescano paesaggi irreali e interiori fatti di aria, luce bianca, di visioni ineffabili e di ombre senza nome. Le atmosfere dei brani tenui, labili, apatiche, anemiche, moribonde, in cui confluiscono momenti di tragedia greca, teatro shakespeariano e brechtiano, lied romantico alla Schubert, salmodia responsoriale dei Carmina Burana per arrivare alla chanson
noir e alle litanie dei muezzin, vengono diffratte e deformate come in un labirinto di specchi. Le canzoni evocano la desolazione di un mondo gelido e deserto come dopo un’immane catastrofe.
Opportunamente la voce non ha la forza di levarsi in inflessioni emotive e si accontenta di un solfeggio al ralenti spesso deturpato da sinistri echi musicali. L’opera è qualcosa di più profondo e definitivo della nevrosi urbana: la voce e l’arte compositiva di Verdiana regredisce di fatto a una forma di musica cerimoniale da catacombe. La prima metà dell’album (grosso modo i primi 10 pezzi) sono miniature di 2 minuti al massimo (e molte non raggiungono nemmeno il minuto). Sono
minuscole sonate da camera in cui la poesia è ora innestata su un bordone di organo (Non Bastava Lo Specchio), ora su un mix di canone ecclesiastico ed echi di elettronica orientale (Prima Di Vedere, Non C’è Mai Stato Niente Da Guadagnare), ora su un madrigale celestiale (Fino A Casa), ora su scenari elettronici (Prima Di Prima, Medea, la funerea La Belladonna, Mare per voce e piccoli tocchi di synth), ora su sonate di piano alla Debussy (La Boheme 2037), ora per semplice monologo vocale (Go On, Billie, Go On). La seconda parte si amplia su composizioni più articolate e ariose ma senza perdere le sembianze sciamaniche di chi recita un’orazione funebre come a definire un senso di caducità che lambisce a metafisica. IL tetro rosario comprende una melodia dark con vocalizzi alla Lisa Gerrard (la title-trak) o infarcito da inflessioni trip hop con salmo vocale su voci trovate (Un Amore Grottesco), un Jazz notturno da cocktail lounge che si muta in un brano elettronico mistico alla Popol Vuh (Mezza Sigaretta), un mantra vocale su synth e percussioni che diventa un mix fra trip hop e sperimentazione alla Throbbing Gristle (Tram Tram Baby Trom), una poesia su ritmi di world music alla Jon Hassell (Aforizma), una poesia su madrigale lisergico alla Julia Holter (Storia Di Un’Ombra) e un’altra su colonna sonora orrifica alla Goblin (Quadro Naturale). Solo Il Buio Di Una Stanza ed Esselunga (per voce, synth e percussioni) si ricollegano
(ampliando durata e arrangiamenti) alla prima parte dell’opera. La musica di Verdiana è una weltansschaung intensa, un’angoscia incurabile, un fatalismo latente e perenne. Le sue canzoni o meglio le sue poesie sono un rituale di vittimismo o di esorcizzazione del vittimismo. L’epico diario di insicurezze e paranoie è il reportage di uno stato mentale alla disperata ricerca di una forma di redenzione, che per adesso è soltanto reclusione.
di Alfredo Cristallo