L’avevamo lasciato tanti anni fa sul lungomare di Lerici che cantava i suoi brani poetici e lunari e abbiamo ritrovato un padre di famiglia, l’uomo della strada che difende i propri diritti da un Potere distopico e ottuso – non esitando a ribattere a un indecente Parenzo in quella sorta di spazzatura mediatica che è “La Zanzara”. Quello sì che è un programma che andrebbe chiuso d’imperio e ci chiediamo se si possa chiamare giornalista il signor Parenzo, signor, il minuscolo è d’obbligo – e che s’indigna quando è il caso, non quando ha i riflettori puntati addosso. Ogni riferimento ai fatti di cronaca delle ultime settimane è del tutto voluto. Ormai anche i lutti familiari sono diventati merce da esibire per ottenere laute prebende in questo Paese.
È stata davvero una piacevole serata l’altra sera allo Schooner a Sestri Levante in un ambiente molto intimo, complici anche le condizioni atmosferiche non proprio favorevoli.
Tricarico, accompagnato dal sodale Michele Fazio al pianoforte, ha ripercorso i momenti salienti della sua carriera in un live acustico e, dopo l’esibizione, ci ha gentilmente concesso una breve intervista. Ha iniziato naturalmente con “Io sono Francesco”. Non potevano mancare pezzi come “Amo”, “La situazione non è buona” (scritta a suo tempo per Celentano), “Non mi parlare d’amore”, “Pomodoro”, “L’America”, “Pesca”, “Il bosco delle fragole”, “Una vita tranquilla” e “Musica”. Molto personale e anche inaspettata la sua interpretazione di uno dei classici della canzone d’autore italiana, “Azzurro” in un concerto che si è alternato al recitato e in cui il Nostro, in un’inedita allure Prog Folk, ha intervallato interventi al flauto e non ha lesinato gag e aneddoti vari. Imperdibile il siparietto finale con un Puttana la maestra! scandito a grande richiesta dal pubblico.
Menzione particolare va ai nuovi singoli, “Faccio di tutto” e “Mi state tutti immensamente e profondamente sul cazzo 1”. Il primo è una vera e propria dichiarazione d’intenti del nuovo corso dell’artista milanese; una perla nello squallore quotidiano italico funestato dalla produzione di rapper, trapper e affini, per non parlare della protervia di quei due eunuchi che fanno sesso e architettura. Insopportabili!
La forza di Tricarico è la profondità della semplicità che si esprime con uno sguardo veramente potente sull’ineluttabilità di ogni scelta e il profondo senso di abdicazione ad ogni valore etico e sociale (non Social) che è condizione primaria nella precarietà della condizione umana odierna, almeno nel cosiddetto Occidente. Un pugno nello stomaco per chi non ha memoria. Il secondo è il vero momento catarchico del concerto. Un pezzo che nella sua carica dirompente nel fotografare un determinato periodo storico ha ben pochi illustri precedenti: “L’avvelenata” di Francesco Guccini e “Omicidio e rapina” di Enzo Maolucci (1976), “Nuntereggae più” di Rino Gaetano (1978), “L’Erba” del buon Faust’O (1995), “La mano di Gloria” degli Ianva (2015). L’ultimo riferimento è un po’ troppo estremo, mi rendo conto, ma quello era un concept album distopico, almeno quanto “Il lavaggio del cervello” dei Decibel (1978). In questo caso però il buon Ruggeri ci ha preso. Basta accendere uno schermo e Italia Brasile la troviamo con facilità. Il mood del momento è solo dispotico, per ora. Forse starebbe nella partita anche un vecchio brano degli Zen Circus, ma chi scrive da tempo non ha più fiducia nell’integrità artistica del gruppo medesimo.
Mi state tutti sublima l’iperrealismo espressionista contemporaneo della poetica del musicista che, ricordiamo, è anche un apprezzato pittore. Il pezzo è una denuncia sincera, una riflessione della condizione di impotenza e minaccia permanente che attanaglia il nostro presente; pandemie permanenti, guerre istantanee che avvengono nel nome di una malcelata urgenza democratica e un politicamente corretto che ormai rasenta il ridicolo.
In poco più che mezzo secolo siamo passati dall’immaginazione al potere ad uno scrutare oscuro, parafrasando Philip K. Dick, in cui il buon senso dell’uomo comune è perennemente schiacciato da un Moloch tecnocratico invasivo che ormai ti riepiloga mensilmente, alla Google Tasks, quante volte e dove hai fatto pipì e si crede di renderti un servizio! Si fa fatica a vivere, a sognare, a immaginare un’alternativa al consiglio dell’acquisto personalizzato dagli algoritmi, dando per scontato che tutti abbiano sempre e comunque portafogli e carte di credito ben forniti. Si fa fatica – certo in Somalia, a Gaza, in Afghanistan hanno necessità più stringenti – perché esistiamo solo come consumatori e l’uscita dal sistema, se non con scelte estreme, non è contemplata. E ancora una volta ci vengono in mente le parole di Giorgio Gaber: “Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana”. Non certo il comunismo degli indegni CCCP arrivati pure a lucrare sul passato di un’onesta carriera. Alla mostra revival in corso ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia vendono le magliette a cento euro, ma se c’è qualche mentecatto che la compra hanno ragione loro, come sempre.
Francesco, io ti avevo visto praticamente agli esordi in un concerto sul lungomare ai giardini a Lerici. Ti ritrovo oggi molto più “politico” rispetto al passato. A cosa si deve questo cambiamento, se di cambiamento si tratta, che ha portato alla stesura di una canzone radicale come “Mi state tutti immensamente e profondamente sul cazzo 1”? Mi ricorda un po’ il Faust’O anni ‘90 quando decise di sbarazzarsi di ‘metafore e metonimie’, tipiche della sua produzione precedente, perché improvvisamente sentiva la necessità di esprimersi senza filtri. C’è stata una goccia che ha fatto traboccare il vaso per far sì che ti esprimessi in una maniera così diretta, come mai avevi fatto prima? Un pezzo che a priori ti esclude da certi salotti patinati…
Questa esigenza è nata da una persona che osserva quello che gli succede intorno e rimane abbastanza perplessa. Laddove non si parla più di lavoro e di diritti fondamentali, ma si parla di altro, tante altre cose che vengono invece strumentalizzate. Abbiamo quindi questo ‘Uomo Qualunque’ che si trova un po’ a disagio in una società dove lo spettacolo è spinto al parossismo. Sembra che si debba ogni volta calcare sempre di più sull’acceleratore. Si parla per slogan e si deve esagerare su tutti i fronti, qualsiasi cosa, dal giornalismo alla politica. Allora questo Uomo Qualunque crolla, impreca e dice che gli stanno tutti sul cazzo.
A proposito di slogan facili; proprio qualche giorno fa Renato Zero dalle colonne di un prestigioso quotidiano nazionale incitava i giovani a scendere in piazza come faceva la sua generazione. Sì, ma per fare cosa?! Leggi l’articolo per intero e non lo spiega, anche perché, secondo me, non lo sa. Sono significanti sprovvisti di significato. D’altronde stiamo parlando di un’artista che anni fa piangeva miseria perché qualche ragazzino gli piratava l’album. Con tutti i soldi che ha guadagnato negli anni d’oro! È tutto uno slogan!
Sì, forse manca un po’ di riflessione, di profondità, di analisi in questo periodo. È diventato tutto una sfida. Non so a cosa si riferisse Renato Zero, ma comunque andare in piazza, stare assieme, è sempre positivo, piuttosto che stare a casa tutto il giorno attaccati al cellulare. Sembra che la socialità tradizionale di strada, quella che portava i ragazzi a uscire di casa, stare all’aria aperta e a conoscere la vita non sia più considerata preponderante dal punto di vista della formazione dell’individuo. Ed è proprio questa socializzazione primaria che caratterizza l’umanità da sempre!
Mi è piaciuto moltissimo l’ultimo singolo: “Faccio di tutto”. L’ho trovato molto maturo. Come ti ho accennato prima, mi sembra che negli ultimi brani tendi ad eliminare le sovrastrutture e ad esprimerti in modo più spontaneo. L’avevo già notato nell’album precedente. È previsto un album nuovo?
Sì. In effetti mi rendo conto che sto esagerando. Tornerò presto alla poesia dove non si capisce niente. Devo spiegare di meno quando scrivo le cose nel momento in cui non si capisce nulla. Credo che sia più semplice dove capisco solo io (sorride). Per quanto riguarda il nuovo album, sono pronti tanti pezzi nuovi e ci stiamo lavorando.
Beh, Battisti musicava i testi di Panella solo quando non ci capiva nulla, in fondo…
Certo, ma quella era una scelta consapevole. Dopo Mogol aveva voglia di intraprendere nuove strade, fare qualcosa di completamente diverso.
Un’ultima domanda: mi aspettavo che cantassi “Tre colori”. Come mai non l’hai fatta?
Ho un bellissimo ricordo di quel Sanremo dov’era in concorso (2011), ma come sai la canzone è stata scritta da Fausto Mesolella che l’aveva dedicata alla madre, una maestra. C’è tutta una storia dietro. È un pezzo che sento molto di Fausto, ma credo che un giorno la riproporrò.
WALTER TASSAU
Pictures & Video: BRICE PIERRET