LOUISE LEMON Lifetime Of Tears

 

Louise Lemon è una cantautrice svedese, presentata come la nuova regina del death-gospel.
Dotata di una voce sensualissima ed evocativa ha avuto una rapida carriera iniziata nel 2017 con
l’EP Purge (4 canzoni per un quarto d’ora di musica) doppiato dall’omonimo LP uscito nell’anno
dopo. Nel 2019 esce il suo secondo album A Broken Heart Is An Open Heart. Tutti questi album
sono stati pubblicati dalla Icons Creating Evil Art mentre il mini-album The Art Of Falling-An
Introduction To Louise Lemon che presenta remix di brani dei suoi precedenti lavori (due brani in
versione live) è stata pubblicato dalla Metal Hammer. Louise Lemon torna alla sua etichetta
precedente con l’EP Devil del 2020 e con il suo ultimo lavoro Lifetime Of Tears pubblicato il 23
febbraio 2024 e distribuito in Italia dalla VREC. Benché paragonata a Cat Power e Lana Del Rey dal
punto di vista della vocalità, la Lemon può vantare riferimenti molto più nobili e molto più datati (il
che non significa sorpassati). Intanto le sue doti canore toccano il soul, il gospel e il blues con la
stessa abilità che furono di Alison Moyet, Carmel, Annie Lennox (da cui riprende tanto l’edonismo
disincantato quanto la malinconia autunnnale) e di Mary Margaret O’Hara.

La sua tecnica vocale è dunque capace di rendere plastica un’emozione musicale con un’intensità drammatica e religiosa (il soliloquio della title-track con venature jazz) che si accoppia a un registro tenue ed evocativo
capace di costruire flussi di coscienza iper-realisti che esaminano la condizione femminile e più in
generale la condizione umana. Partendo da qui, è alquanto limitativo affermare che sia una
cantante dark-ambient con un debole per le melodie goth-pop; Louise Lemon non è una riedizione
della Amy Lee degli Evanescence, semmai è la controparte femminile del Peter Hammill più
tormentato. Certo i pezzi oscuri ci sono (l’iniziale Shattered Heart, il pop innodico di Mourn His
Breath) ma in realtà la Lemon è anche capace di costruire magiche armonie ariose e solenni (il
dance pop di Tears As Fuel, Feels So Good, Northern Lights), melodie new age con echi
soprannaturali (il synth folk di All I Get che ricorda le canzoni-sortilegio dei Bel Canto) spingendosi
fino ad osare ardite variazioni dub come nel dance pop di Midsummer Night con sviluppo epico o
reggae (Pure Love a passo di pow-wow) per concludere l’opera con il capolavoro di Topanga
Canyon (due minuti solo strumentali di bordone cosmico introduttivo a mimare un synth pop
lisergico e altri due minuti di bisbigli soffici fra echi di tastiere eteree). Riflessiva e cerebrale,
tormentata e pacata la voce della Lemon scivola fra le note secondo una tecnica subliminale di
straniamento tipico della new wave degli anni Ottanta ma potendo vantare una fusione eccellente
di tecniche d’avanguardia (come quelle esplorate da Heather Duby), le armonie tipicamente
nordiche di Minru e di Soley e stili gospel/soul che conferiscono alla sua opera un tono raffinato
perfettamente a suo agio sugli arrangiamenti sempre impeccabili, cristallini, eleganti. Merito e
quindi doverosa citazione del produttore Randall Dunn.

di Alfredo Cristallo

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