Dopo quasi due anni di silenzio torna Soley con un nuovo album dal titolo Endless Summer. L’ex- pianista e cantante del gruppo indie folk islandese dei Seabear, titolare di una lucente produzione solista (dal 2010 un EP, un mini-LP e due LP) ha deciso quindi di dare un seguito al suo precedente Ask The Deep (del 2015) che l’aveva improvvisamente proiettata verso un notevole successo di critica e pubblico. Merito anche della Morr Music che ne ha prodotto tutti gli album, incluso quest’ultimo, uscito il 5 maggio del 2017. Rispetto al precedente lavoro che era più notturno, nostalgico e a tratti misterioso, questo nuovo album appare più vivido e luminoso (come indicherebbe il titolo, immagino reminiscente delle glorie e del mito dei Beach Boys).
Rimane il senso inquietante di mistero e di nostalgia che era stata la principale cifra stilistica dell’album del 2015 ma sono del tutto scomparsi gli arrangiamenti sintetici e gonfiati dall’uso delle tastiere. Ciò che è magnificamente rimasto è la cura minuziosa del suono sia pure all’interno di atmosfere che rimangono programmaticamente rarefatte. La nuova piattaforma sonora anzi si è fatta più scarna ed essenziale (la maggior parte delle canzoni sono per piano e voce) e soprattutto più vicina ai moduli della musica classica e medievale; non bisogna peraltro dimenticare che Soley è laureata all’Accademia d’arte islandese in piano (che ha cominciato a suonare da bambina), chitarra e composizione. Soley in pratica si cimenta in un continuum di tonalità dalla ninnananna, al lamento introverso, alla filastrocca spensierata e a volte un po’ sinistra (Uà) ma mantenendo uno standard melodico fondamentale cosicché musicalmente parlando ogni canzone suona come una variazione su due temi principali, la sonata romantica e il madrigale medievale. Al primo canone appartengono le sonate lente e accorate di Never Cry Moon (introdotta dal frammento orchestrale di In Between) e Grow che agghinda un coro fatato di bambini e il notturno chopiniano di Before Falling. Al secondo canone appartiene la delicata Sing Wood To Silence impalpabile come una farfalla che vada a letto e impreziosita da un gentile coro femminile. L’arte di Soley si complica impercettibilmente negli ultimi due brani Traveler che è un’altra fiaba avvolta in voci angeliche che si evolve in una corposa sonata per organo e gran piano e la title-track finale che è un vero e proprio solenne salmo religioso che si innalza in un coro celeste per poi chiudersi in sparuti accordi di piano immersi in un oceano di droni; è l’unico brano che si riallaccia al precedente album e che lambisce le soavi cantilene intrise di campionamenti alla Heather Duby. Come che sia l’atmosfera generale risente del taglio tipico dato da Soley ai suoi brani: colonne sonori per fiabe di bambini o per film su giochi infantili nel grande e intricato giardino segreto. Le sonorità riportano realmente e ineluttabilmente i colori tipici della sua terra natale, grigio seppia, verde, blu ardesia. Molto bella anche la copertina dai colori sfocati come le albe dei quadri di William Turner. Pur nella sua onnipresente foschia sonora e nella sua umiltà programmatica l’arte di Soley rimane la più interessante fra i musicisti islandesi di questo scorcio di decennio.
di Alfredo Cristallo