Il GDG Modern Trio è un progetto che ha visto la luce su impulso di Stefano Ghittoni (samples, beats, tastiere) dei Dining Rooms e che vede coinvolti Bruno Dorella (chitarra, percussioni, vibrafono) già nei Ronin, OvO e Bachi Da Pietra e Francesco Giampaoli (basso, chitarra classica, moog, OP1, woodblock) già nei Sacri Cuori; GDG è appunto l’acronimo delle iniziali dei cognomi dei tre musicisti. Il progetto ha avuto una gestazione piuttosto lunga (due anni) durante i quali Ghittoni ha presentato le sue idee di partenza fortemente permeate dall’elettronica vintage che sono state poi rielaborate insieme agli altri due componenti e il risultato è stato l’album Spazio 1918 uscito nel maggio 2018 per la label Brutture Moderne.
L’idea è stata quella di creare una sorta di ambient contemporaneo utilizzando con lodevole senso documentario reperti musicali del passato e prodotti della cultura musicale popolare ma senza idealizzarli anzi usandoli piuttosto per cercarvi una forma di divertimento e fascinazione. Il risultato sono 11 acquerelli musicali che riproducono un immaginario popolato da probabili colonne sonore per film mai fatti (e che forse mai si faranno) dove le idee musicali di partenza, la strumentazione usata e i riferimenti a materiali musicali da archivio sono trattati come giocattoli dai quali estrarre un capitale subculturale tramite il riciclaggio e la ricombinazione metatestuale.
Quest’operazione di bricolage riesuma di fatto 40-50 anni di musica popolare partendo dalle sperimentazioni d’avanguardia e psichedeliche degli anni Sessanta (Grateful Dead, Kevin Ayers e soprattutto Can e Faust) e Settanta (le sculture sonore di Brian Eno), passando attraverso gli esperimenti austeri e atonali degli anni Ottanta (il mix di prog-rock, free jazz, musica concreta e musica aleatoria dei This Heat) e Novanta (le fantasie audio
dei Microphones) per raggiungere il raffinato folk digitale (anch’esso tanto atonale quanto
minimale) dei Four Tet consentendo una ricompattazione di elementi ritmici e melodici dove la composizione del suono e gli arrangiamenti (cioè la canzone) sono una cosa sola mentre i beats e l’elettronica digitale rimandano a una dimensione più emotiva e personale, quindi intima.
L’album scorre come un flusso di coscienza attraverso ogni singolo brano che preso da solo fa storia a sé e presi tutti collettivamente compongono un collage di dettagli sonori di rara intensità e altamente suggestivi. Gli interventi strumentali (dissonanti, sincopati, astratti e variopinti) sono la spina dorsale e innervano ognuno di questi singoli microcosmi mentre gli arrangiamenti giocati su melodie modeste, ritmi sfuggenti e suggestioni musicali tenebrose trascendono la successione da un brano all’altro e da un episodio all’altro: a parte le 3 minuscole Interferenza 1, 2 e 3 che sono esercizi di musica trovata, non c’è realmente un brano che somigli veramente all’altro. Si va quindi dal jazz pop da cartoon della title track (un esercizio dadaista alla Confusional Quartet) alla nenia dance pop di Retrophuturo con echi morriconiani di chitarra flamenco e dissonanze riecheggianti il pathos patafisico dei Soft Machine, dal jazz blues mimetizzato dietro un hip hop frastornante di Audrey’s Blues ai ritmi tropicali sfigurati dall’elettronica di X-Rated. Nella seconda parte dell’album il trio sembra (ripeto: sembra) concentrarsi su blocchi più compatti discettando prima sul blues psichedelico di Spirit (l’unico pezzo non strumentale) e sul desert blues lisergico con percussioni tribali di Astro Blues e poi sulle colonne sonore di fantascienza anni ’70 e ’80 di See The Stars (con inserti di musica koto reminiscenti degli strumentali del duo Jansen/Barbieri) e di Micronesia (la cui base di trip hop onirico potrebbe appartenere anche alla Bjork più astratta). L’affastellarsi di segni musicali di Spazio 1918 tuttavia crea una musica che un remix di un remix di un remix fino a diventare un remix di sé stesso. La copertina dell’album ispirata al modernismo pittorico russo è bella e suggestiva quanto l’album stesso. Questo potrebbe rimanere anche l’unico album del GDG Modern Trio e saremmo contenti lo stesso. Ma speriamo che ci sia un seguito.
di Alfredo Cristallo